Rinvengo, dopo una nottata allucinante, in uno scantinato grosso più di tre quarti degli appartamenti di Milano. Salgo le scale di moquette fino all’atrio principale, scoprendo un sole primaverale splendente.

Nel salotto (uno dei salotti, per meglio dire) c’è la televisione accesa su ESPN. Mi guardo attorno, aspetto di intravedere la faccia di qualcuno che commenti con me l’incredibile prova di Nate Robinson della sera precedente. Dormono tutti, chi non dorme è da Dunkin’ Donuts a comprare un cartone da 3 litri di caffè per otto persone.

Il rotocalco cambia argomento: il draft NFL della sera precedente. Stessa disperazione, stesso sguardo perso nel vuoto, finchè non si manifesta il mio “salvatore”. Nero, magro, una maglietta dei Philadelphia Eagles e un pigiama grigio, esce da una stanza al pian terreno brandendo una scatoletta verde di pillole. Ne trangugia la metà, avrei appreso solo nel pomeriggio che aveva vomitato anche l’anima la sera prima.

“Buongiorno, hai visto che avete draftato Matt Barkley? Non ha senso con Chip Kelly alla guida, avete già Foles se proprio volete lanciare! L’unica cosa è che facciate fuori Vick!”

Da notare che il ragazzo la sera prima non me lo avevano proprio presentato e lui ignora completamente il mio nome e la mia provenienza.

“Una cosa è sicura: Vick è il nostro titolare…”

Finalmente arriva la padrona di casa, con il suo bel cartone di caffè di Dunkin’ Donuts per otto.

“Dario, ne vuoi?” mi chiede.
“Stai scherzando?” la mia risposta.

Riemerge anche il mio compagno di viaggio dallo scantinato:
“Oh, grazie, volentieri”

Se ne pentirà di aver sorseggiato quella brodaglia, fidatevi.

A seguito dell’improbabile discorso con l’afroamericano di Philadelphia di pochi minuti fa, si svegliano tutti.

Un bel gruppetto, personaggi variegati provenienti da Villanova (alma mater della donna col caffè di cui sopra), dalla California (rami familiari) e dallo stesso New Jersey in cui ci troviamo. Riusciamo tutti insieme a rivedere le fasi salienti dei 34 punti di Robinson, prima che l’assemblea si sciolga spinta dalla fame.

Nessuno disdegna il mitico bagel con prosciutto e formaggio, ma il cugino Robert, un omone di 40 anni e 130 chili un po’ claudicante e dalla voce grave, ha altro in mente. Cerca affannosamente i biscotti che avevamo portato il giorno prima dall’Italia.

Immagine 001Il mio sospirare “Finalmente una persona dotata di gusto” annega nel guacamole, avanzo dalla festa, in cui il cugino Robert inzuppa amabilmente i dolcetti pugliesi, che nel frattempo ha scovato nascosti (dallo stesso Robert) in una delle cinque credenze della villa.

Per svegliarmi devo evidentemente prendere un po’ di aria fresca visto che il capitolo colazione inizia a disgustarmi. Esco in veranda, dovrebbe esserci della pizza lasciata lì dal catering…

Stampo i biglietti per la partita sulla via per New York, in una di quelle biblioteche di paese con dentro solo anziane signore e una bella bandiera a stelle e strisce, grande quanto un pianeta, che sventola sul tetto.

Prima cosa da imparare sulla città più famosa al Mondo: la metropolitana è un rebus. L’appartamento affittato su Mulberry Street, cuore di una Little Italy che ha perso il corpo rosicchiato dalla comunità cinese, è lontano due miglia dalla più vicina stazione, quella di Canal Street.

Manhattan è un fast forward ansioso tra un avvenimento insolito e l’altro: le facce degli ispanici che servono al ristorante “Positano” sotto casa, le modelle sulla quinta che girano spot pubblicitari vestite in modo sgargiante, gli artisti di strada dentro Central Park, la desolazione di Tribeca e le luci di Times Square di notte, il buco di quelle che furono le torri gemelle che toglie il fiato.

Il cielo è plumbeo quando arrivo al Barclays Center per gara 5 della serie Nets-Bulls già menzionata. La patina di nuovo che ha la costruzione non tradisce le origini proletarie di Brooklyn ed è lo stesso palazzetto a omaggiare la storia della pallacanestro e del quartiere: nella parte interna degli anelli i bar sono di fronte a numerosissime steli che raccontano gli esordi della pallacanestro newyorchese.

Parlo delle New York Girls, primo team di sole donne nere a giocare in una lega di basket organizzata, e lo “Smart Set Athletic Club”, squadra capitanata dall’imprendibile Doctor “Huddy” Oliver. E poi ancora gli altri “Black Five”, le squadre di soli afroamericani che si sfidavano per trentacinque centesimi a spettatore su Fulton Street, negli anni ’10.

La storia della palla a spicchi e dello sport di Brooklyn, un racconto itinerante all’odore di hot dog e caramelle gommose che mi accompagna al più classico dei tentativi italiani di intrufolamento.

Entro in un settore danaroso, quasi a bordo campo: “Let me see your ticket!” tuona la hostess; le spiego che voglio solo fare una foto ai giocatori che si allenano, che tornerò subito alla mia 891esima fila in alto, in linea d’aria bel al di sopra del banner di Drazen Petrovic.

L’obesa inserviente mi dice che non posso, accetto di buon grado ma mentre penso a quale altra sezione assaltare la matrona mi richiama: “Man, just one minute, nothin’ more!”. Utilizzo la connessione wireless gratuita del palazzetto per far morire di invidia metà degli amici rimasti a casa.

barc65Alla fine di questo peregrinare prendiamo posto, io e il compare di cui sopra, ancora un po’ scombussolato dal caffè della mattina antecedente. Ad attenderci, nel vuoto cosmico del Barclays Center a più di un’ora dalla palla a due, un fazzoletto nero.

Magari in Italia avete storto il naso, pensando a quanto belli e colorati fossero i palazzetti di South Beach o di Oklahoma City, quando guardavate le partite dei Nets, circondate da un televisivamente impercettibile nero.

E invece il nero è adatto: non è solo un colore o un modo di affascinare lo spettatore casuale, ma più una dichiarazione di intenti. Del suo passato nero Brooklyn va fiera, poco importa se lo spettacolo è leggermente meno televisivo, o meno suggestivo all’interno dello stesso palazzetto.

Brooklyn deve mettere sul fazzoletto da sventolare il nero, deve scriverci “Blackout in Brooklyn”, deve portare alta la bandiera del suo passato difficile, dei suoi lunghi decenni senza sport a guardare da lontano i costosi seggiolini del Madison Square Garden riempirsi di ricconi di Manhattan.

Gerald Wallace fa la schiacciata della vittoria con qualche secondo sul cronometro, e mi allontano dall’arena dei Nets al di fuori della quale sventola una bandiera americana sorretta dal simbolo di questo amplissimo appezzamento di terreno su cui sorge il Barclays.

E’ un palo espiantato da Ebbets Field, il mitico ballpark in cui debuttò Jackie Robinson il 15 aprile 1947. Il forte legame tra la segregazione razziale e il patinato mondo dello sport professionistico USA sta tutto lì, in quello che non è nemmeno un metro quadrato di Brooklyn.

Manhattan, nuovamente. L’isola venduta dai nativi americani all’Olanda nel ‘600 ha oggigiorno due facce.

Una è quella di un ristoratore di Union Square, Luca, a cui non faccio pubblicità perchè vendere un cornetto vuoto a 4 dollari è un ricatto a cui non mi presto in questa e nessun’altra sede. Abruzzese, porta 39 anni dimostrandone 29, ha tre locali a Manhattan dove approdò una ventina di anni fa.

Alla mattina si alza all’alba e va a giocare a calcio al parco con altri professionisti: avvocati, imprenditori, altri ristoratori. Si lamenta che deve svegliarsi a quell’ora perchè il parco è prenotato per tutto il giorno da scuole, ispanici e altre etnie inclini al gioco del pallone.

Non mi offre niente nel suo centralissimo locale da 100 coperti, mi scrive su un bigliettino una decina di posti in cui trascorrere la serata e torna a fatturare milioni di dollari con i suoi dipendenti, tutti compatrioti incluso il barista che, dice Luca, fa il migliore caffè di New York. Direte: ma come fai a conoscere uno così? Beh, ma non sapete niente della serata in New Jersey…

La seconda faccia di Manhattan è quella di una bella ragazza italiana. Plurilaureata, lavora sulla 20esima strada in uno studio privato di design e ha molte responsabilità su interi progetti (case, negozi, altre attività).

Lo stipendio sarebbe commisurato alla location: il quadruplo di quello che prende lo stesso professionista a Milano. Peccato che l’appartamento in affitto (forse 25 metri quadri, zona Central Park) costi più di metà dello stipendio, che un’ insalata in pausa pranzo valga 10 dollari (per 20 giorni di lavoro fa 200) e i voli per tornare a casa sotto le feste vengano una fucilata.

Aggiungiamo pure che un avvocato, per questioni burocratiche legate all’immigrazione obbligatorie, prende 500 dollari all’ora (e su questo ci torniamo in chiusura). Tutto sommato, dice che la vita che conduceva a Roma le portava più soldi.

E non solo: mi descrive New York come un insieme di persone in cui nessuno passa il tempo con nessuno. Esci, conosci, poi un “Ci sentiamo!” che si tramuta in mesi senza sentirsi, per poi magari fare un pranzo di venti minuti al parco in pausa, con qualcuno che in realtà non conosci.

Non ha amici la nostra, pur conoscendo molte persone. E’ un ingranaggio sottile in un meccanismo sociale estenuante. Pensa di tornare in Italia.

– “Welcome to the Yan…”
– “Sì, ok, dimmi dove ritiro i biglietti comprati su Internet”.

Mi presento, descrivo la mia situazione, tiro fuori un numero ridicolo di fogli dalla borsa.

– “Welcome to the Yan…”
– “Sì, ok, lo so dove sono, ora mi dica se devo farle vedere qualche altro documento!”.

Una mano anziana, enorme, nodosa si affianca al vetro, fermando la mia foga.

“Welcome to the Yankee Stadium, my name is James, how may I help you?”

Non ha nessuna fretta il signore di fronte a me, nessuna tensione, la pace di un newyorchese che passa la pensione a consegnare i biglietti agli stranieri che vengono a visitare il punto di approdo mondiale per qualsiasi appassionato di baseball.

James ha un sorriso contagioso, la casacca degli Yankees con il suo nome ricamato sul cuore, è un dolce vecchietto di quelli simpatici, che rendono le giornate meno caotiche. Me lo sono subito immaginato vivere in un appartamento del Bronx da 60 anni, guardare i Bombers in TV quando sono in trasferta e lavorare nel vecchio Yankee Stadium.

Raggiungo la stessa pace anch’io quando James mi dice che serve solamente il numero di prenotazione, niente di più. Io ho chiaramente un arsenale di documenti di stampo fantozziano: fotocopia della carta d’identità mia e della persona la cui carta di credito ha comprato i biglietti, delega di questa persona al ritiro dei biglietti in sua vece, stampa della ricevuta dei biglietti, fotocopia della carta di credito utilizzata. Insomma, un pazzo maniaco con dieci chili di carta.

Carta straccia, perchè a James basta solo il numero di prenotazione che potevo anche scrivermi sulla mano, o imparare a memoria.

“Ah, che bello, venite dall’Italia! Pensa che l’altro giorno la mia collega… Marta, quanti erano?”
”21 James, 21”
“La mia collega ha servito gente da 21 paesi differenti”
“E oggi a che cifra siete?” chiedo io.
“Giappone, Cina, Colombia, Svezia, Germania, Italia. Sei. E mancano più di due ore al primo lancio, magari supero Marta oggi”.

La Babe Ruth Plaza è quasi deserta, in effetti, ma Monument Park chiude i battenti tre quarti d’ora prima dell’inizio della partita, e occorre sbrigarsi perchè alla fine nemmeno James mi ha tolto la tachicardia da pellegrinaggio che ho addosso.

jack67La raccolta di piccoli monumenti ai grandi della storia degli Yankees è un giardinetto minuto, in cui è la leggenda a farla da padrone, non certo la presentazione. Lo spazio è poco, le palline battute dagli Oakland Athletics che si riscaldano finiscono sopra le nostre teste, nella rete che protegge le steli dedicate a Lou Gehrig, a Joe Di Maggio, a Yogi Berra e compagnia. Un secolo ricordato anche dalle istantanee di tutti i titoli vinti, pennant o World Series che siano, che nel ring girano attorno a tutto lo stadio.

Uno stadio che definirei in ogni caso quasi deludente. L’intelaiatura sembra debole, le gradinate sono di ferro, così come i corrimano. Le iconiche arcate bianche fisse nell’immaginario del fan europeo sembrano un orpello del tutto avulso dal contesto della struttura.

Senza storia, senza James, senza partita, lo Yankee Stadium non sarebbe all’altezza della sua fama. Per fortuna c’è Monument Park, il museo e altre trovate come il negozio di cimeli per far sentire lo spettatore dentro un vero e proprio pezzo della leggenda dello sport.

Sul monte salirà C.C. Sabathia, Adam Rosales girerà il primo lancio oltre le recinzioni e gli A’s ammutoliranno la folla internazionale disinnescando gli attacchi dei Bronx Bombers, sostenuti unicamente da Robinson Cano in attacco.

Non male la partita per quelli a cui piace il baseball difensivo e senza sbavature, finisce 2 a 0. Pessimo invece il menù, con la birra quotata a 9 dollari e un hamburger a 16. Terrificante il freddo, che nei meandri del quarto anello rende la primavera nordamericana una lotta contro il vento tagliente; tant’è che l’ultimo out è salutato con sollievo dai più.

Sul treno che ci riporta dal Bronx a Manhattan ricordo una serie di personaggi grotteschi, che tradotto in newyorchese stretto diventa “normali”.

Come una donna nera, vent’anni, canotta traforata scura e pantaloni attillati rosa shocking dotata di bambino, anni forse uno, vestito come il peggiore dei “tamarri” con tanto di cappellino con borchie dorate e scritta glitterata, più Nike d’ordinanza che sballonzolano gioiose e coloratissime fuori dal passeggino.

Seguiamo degli studenti di NYU che si aggrappano ai corrimano come scimmie. Ci fermiamo in un bar sport del Greenwich Village dove danno i playoff NBA, e, mentre i Thunder passano al turno successivo, due di loro capiscono che siamo forestieri e attaccano bottone.

Uno dei due è irlandese, ma vive nella Mela (citazione) da dieci anni. Gioca a baseball e ha fatto il pitcher per anni a livello giovanile. Dice che una volta cresciuto lo pagavano per lanciare in una lega minore, io inizio a parlargli di MLB ma nonostante millanti un passato così glorioso (non ricordo quanto prendesse, forse 25 dollari a partita) non sa nemmeno chi abbia vinto le World Series dell’anno scorso.

Il suo amico è più schivo, è uno studente di finanza, il classico ricco di famiglia che non vuole fartela pesare come se ne trovano a pacchi anche a Milano. Finiamo in fretta il petto di pollo adagiato su letto di pasta alla salsa di vodka e cambiamo locale, perchè le partite sono finite e del buon bere può aiutare a lavare via quel sapore improponibile dell’esperimento culinario a cui ho coscientemente accettato di partecipare.

Il cartello fuori dalla porta è chiaro: shot a 1 dollaro, birra a 4. Non sembra nemmeno di stare a Manhattan con questi prezzi. Si entra senza nemmeno pensarci. Il deserto è più animato: “Dov’è che si beve?” chiedo alla cameriera. Alza l’indice e lo muove verso l’alto, c’è una scala stretta che sfocia nel buio.

Una luce lo rompe, è la torcia di un buttafuori di 150 chili alto più di due metri che mi brucia la retina. “ID” chiede, io tiro fuori la carta d’identità italiana sperando non voglia il passaporto sagacemente dimenticato in Mulberry Street, poi mi perquisisce come nemmeno al JFK o al memoriale delle Torri Gemelle. Ci dice di entrare, avendo appurato che il prossimo compleanno è il 29esimo e non abbiamo granate nel giubbotto.

Aldilà della porta stile saloon non siamo troppo sicuri che nessuno sia disarmato. C’è un fumo terribile, il barista è una sagoma di cui è impossibile definire sesso e fattezze, il pavimento è appiccicaticcio come in un pub frequentato da minorenni e il reggaeton pompa forsennato nelle casse. Intravediamo qualche ombra che balla e appuriamo che il fumo non è messo lì dai proprietari del club, ma piuttosto creato da qualche sigaretta quasi legale.

“Hai visto? Hanno la sambuca!” “Cambiamo zona!” I 30 secondi più lunghi della mia vita, ma provateli anche voi: “el cantinero” su University Place, a metà tra Union Square e NYU, ristorante (sembra pure buono) fino una certa ora, senza definizione in seguito.

La vacanza giunge al termine senza avermi fatto pensare nemmeno per un secondo che New York sia un posto in cui vivere. Butto la spazzatura, costituita dalle latte di noodle comprati a Little Italy/Chinatown in una piccola alcova del palazzo del ristorante Positano su consiglio dei peruviani che lo dirigono e compro gli ultimi ricordini alle bancarelle sulla Canal.

Il viaggio in Metro verso l’aeroporto ricorda esodi di biblica memoria. Tre ore persi tra linee della metro che chiudono, monorotaie in ritardo, bus sostitutivi e due errori madornali che riportano verso il centro di Manhattan.

Forse New York è proprio rappresentata dalla sua metropolitana. La usi, la odi, ci fai quattro soldi strimpellando vicino ai vagoni che impazziti vanno avanti e indietro a velocità folli. Arrivando in ritardo, impossibilitato a dare un appuntamento, provando un facile senso di inferiorità mentre i grattacieli ti ricordano che vivi sottoterra.

Mentre l’aereo irlandese ci riporta a Milano via Dublino, mi torna in mente il primo improponibile personaggio della vacanza: grasso, 70 anni, è il nostro autista privato che dal New Jersey è venuto a prenderci all’aeroporto. Tiene in mano un cartello, con il nome del mio amico.

“Ehy, siamo noi!”
“Andrea? Non è un nome di donna? E io che mi aspettavo due belle ragazze!”.

Ci mette trenta minuti a cercare la macchina nel parcheggio (forse per la delusione di avere a che fare con due uomini) ma se Dio vuole la troviamo. Il nostro driver è italiano, nato in calabria, emigrato ad un’età ridicola, tipo tre anni.

Non sa niente dell’Italia e della sua lingua natale. Gli chiedo se tiene agli Yankees o ai Mets. “Yankees, chi se li fila i Mets?”. Gli chiedo se tiene ai Jets o ai Giants. “A chi vince”.

E’ un personaggio interessante, potrebbe raccontarmi un sacco di cose, ma alla tredicesima ora di servizio è un po’ stanco, e deve ancora attraversare il traffico inimmaginabile di New York per l’ultima volta del giorno.

Non lo disturbo, ma per fortuna l’autostrada (un cantiere dopo l’altro) ha il tramonto sullo skyline di Manhattan da una parte e tutte le principali attrazioni dall’altra. Il Citi Field, lo Yankee Stadium, il MetLife, il Coliseum.

Appena la via si libera un po’, mi ricordo le parole di un taxista brasiliano di Miami: “Io ho guidato da tutte le parti, ma gli americani sono pazzi!”. L’italo-americano fa infatti ruggire il suo bolide, sfrecciando in una gincana preoccupante, ma alla magione arriviamo tutti interi.

Due cerbiatti in giardino, due box per la macchina, due piani con mansarda, minimo 30 stanze, un giardino immenso, un autista privato che si allontana nella notte. Ecco dove finiscono i 500 dollari l’ora che gli avvocati prendono a New York City!

 

One thought on “In viaggio negli States: New York

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