Prima istantanea: Monaco, 1972. Le Olimpiadi segnate in maniera indelebile dall’attentato agli atleti israeliani da parte dell’organizzazione “Settembre nero”.

Nel suo piccolo, la storia della pallacanestro viene segnata dalla prima sconfitta in una manifestazione olimpica della squadra statunitense. I collegiali americani vengono scippati della medaglia d’oro nella finale contro gli avversari (non solo su un parquet) dell’Unione Sovietica, in uno dei finali più discussi e discutibili della storia del gioco.

Seconda Polaroid: Seul, 1988. Altri giochi olimpici contraddistinti da polemiche (una su tutte il doping, con il canadese Ben Johnson, medaglia d’oro e recordman mondiale dei 100 metri, squalificato).

Nel torneo di pallacanestro gli Stati Uniti, presentatisi con la solita squadra collegiale di discreta levatura ma con relativa esperienza internazionale (i nomi più importanti: David Robinson su tutti, poi Danny Manning, Dan Majerle, Mitch Richmond…) vengono sconfitti nettamente e stavolta senza recriminazioni ancora dall’Unione Sovietica nel primo incrocio tra le due nazionali proprio dai tempi della contestatissima finale di Monaco.

Dopo la delusione olimpica per gli Stati Uniti ne arrivò un’altra: bronzo anche ai mondiali del 1990 in Argentina, sconfitti in semifinale dalla Jugoslavia di Kukoc, Petrovic e Divac. Ormai si era capito che il resto del mondo aveva fatto progressi enormi, e che le bande di ragazzini della NCAA non bastavano più per avere ragione di giocatori che fisicamente e tecnicamente stava crescendo tantissimo.

A quel punto USA Basketball decide che è giunto il momento di ristabilire le gerarchie, e complice anche una delibera del CIO che toglie un velo di ipocrisia ed autorizza formalmente gli atleti professionisti a partecipare alle Olimpiadi (come se i vari Carl Lewis o Sabonis non incassassero lauti assegni per le loro prestazioni sportive…) decide che è finita la ricreazione, ossia il tempo di gioco dei bambini, e che è ora che i grandi si mettano al lavoro per far tornare a suonare lo Star Spangled Banner alla cerimonia di premiazione.

Sicuramente c’era quindi un senso di rivalsa e una volontà di riappropriarsi del titolo di nazione che ha inventato il gioco e che ne detiene i migliori interpreti del pianeta (vabbè, Naismith era canadese, ma il senso l’avete capito).

Ma l’intuizione della federazione americana e della NBA, nelle persone di David Stern e di Rod Thorn in particolare, è stata anche quella di capire che portare gli atleti-simbolo della Lega ad una manifestazione così importante a livello planetario avrebbe contribuito a diffondere il basket (e la NBA, nello specifico) attraverso quei cinque cerchi in tutti i continenti che questi rappresentano. Se poi hai a disposizione una multinazionale che cammina, di nome Michael Jordan S.P.A., le cose diventano anche più facili.

Possiamo dire infatti che Jordan è stato il pilastro su cui si è costruito il concetto di Dream Team.

Senza la sua partecipazione, infatti, non ci sarebbe stato tutto quel clamore attorno alla squadra, forse non tutti si sarebbero convinti a partecipare, forse sarebbe saltato per aria l’impianto, il modello e il nome stesso di “squadra dei sogni”. La NBA e la USA Basketball volevano Jordan, dovevano avere Jordan a tutti i costi, e per averlo erano disposte a tutto.

Ma inizialmente MJ non era convinto. Aveva già vinto un oro olimpico nel 1984, cominciava a dare i primissimi segnali di logoramento mentale che l’avrebbero portato, complice anche la morte del padre, al ritiro dopo la prima tripletta nel 1993.

Le chiavi per ottenere il suo assenso furono due: accontentare tutte le sue richieste (e vedremo nello specifico quali), ed ottenere l’assenso delle due leggende che avevano preceduto MJ come simboli della Lega: Magic Johnson e Larry Bird.

Magic era stato costretto al ritiro all’inizio della stagione ’91-92 per essere stato diagnosticato positivo al virus HIV, aveva fatto un fugace ritorno con la leggendaria partecipazione all’All Star Game 92 (coronata dal titolo di MVP, e se non vi vengono i brividi a ripensare a quella emozionante partita non siete umani), era quindi ovviamente smanioso di poter ritornare a calcare i parquet. Una volta ottenuto l’assenso dei medici, fu lui la prima tessera del domino che innescò tutte le altre.

Larry Legend era ormai a fine carriera, con una schiena a pezzi, ma la presenza del suo grande amico/rivale lo costringeva in qualche modo a prendere parte alla selezione.

Una volta ottenuti questi due assensi, Rod Thorn tornò alla carica da Jordan, letteralmente supplicandolo “Michael, questa è una cosa più grande di tutto, più delle NBA Finals, più di tutti noi. E’ una cosa che devi fare, abbiamo bisogno di te”. A quel punto la domanda di MJ non giungeva inaspettata, e la risposta era pronta “Who else is playing?”. “Magic e Larry sono dei nostri, loro sono stati i più grandi degli anni ’80, tu sei il miglior giocatore del pianeta oggi: non puoi mancare”. E Jordan fu così convinto.

Ecco, questo riportano i racconti apologetici ufficiali, mentre per alcuni la versione apocrifa del colloquio fu più o meno questa: “Accetto, ma alle mie condizioni. Primo: Isiah Thomas non lo voglio vedere neanche in fotografia. Secondo: bene Magic e Larry, ma sarà la MIA squadra, e voglio che Pippen sia nei 12. Terzo: voglio poter giocare a golf e andare al casinò durante gli allenamenti”.

Risultato: Thomas (che era indiscutibilmente uno dei migliori 10 giocatori della Lega all’epoca, reduce dalla doppietta di titoli 89-90 con i suoi Pistons e da una serie di sfide contro i Bulls non sempre caratterizzate da atteggiamenti sportivi da parte dei Bad Boys – eufemismo!) fatto fuori senza troppi complimenti, Pippen con un posto garantito a roster (che comunque meritava a prescindere, sia chiaro) e sede europea degli allenamenti preolimpici fissata casualmente a Montecarlo. Basta a far capire quanto ci tenessero ad avere il 23?

La scelta che sorprese un po’ tutti fu quella del coach: venne nominato Chuck Daly, proprio l’allenatore dei Detroit Pistons così odiati da Jordan. In ogni caso, si sa quanto gli americani siano affascinati dal concetto di “vincente”, e Daly sicuramente un vincente lo era, abbastanza per essere rispettato da un gruppo di superstelle così.

Per dirla con le (al solito) sincere parole di Charles Barkley: “Oh, Chuck allenava i Bad Boys. Se uno riesce a gestire una manica di stronzi del genere, può allenare chiunque”!

Il triumvirato Magic-Larry-Michael era dunque formato: bisognava pensare ad assemblare il resto della squadra. Partendo dai lunghi: all’epoca i migliori centri della lega erano senza ombra di dubbio David Robinson, Patrick Ewing e Hakeem Olajuwon. Essendo nato quest’ultimo in Nigeria e non avendo ancora completato la trafila per diventare cittadino americano (otterrà la cittadinanza nel 1993) i due posti furono assegnati senza pensarci troppo.

Anche nel ruolo di ali forti la scelta era abbastanza scontata: Karl Malone era uno dei migliori giocatori della NBA in assoluto da qualche anno, e così anche Barkley, convocato nonostante qualche timore sul suo carattere per così dire “esuberante”.

Insieme a Malone non poteva non essere chiamato il suo compagno di squadra ai Jazz John Stockton, che veniva da 5 stagioni consecutive come miglior assist-man della Lega. Detto di Pippen, per assicurarsi un tiratore venne chiamato Chris Mullin dai Golden State Warriors, reduce da una stagione da oltre 25 di media nel veloce sistema di gioco di Don Nelson.

Si era arrivati a 10: mancavano due posti. Il comitato di selezione aveva deciso che uno sarebbe spettato ad un giocatore di college, in parte per mantenere comunque un legame con le squadre che fino ad allora avevano preso parte alle competizioni internazionali, in parte per poter lasciare senza problemi in panchina almeno uno dei 12 (alle altre stelle bisognava comunque garantire un minutaggio ed un’esposizione adeguata).

Fu preso in considerazione un giovanissimo Shaquille O’Neal da Lousiana State University, ma alla fine la scelta cadde su quello che effettivamente era l’uomo copertina del college basket dei primi anni 90: Christian Laettner di Duke University.

Per l’ultimo posto da “pro” disponibile ci fu un ballottaggio tra Joe Dumars e Clyde Drexler, vinto alla fine da quest’ultimo, con Dumars tenuto come prima riserva in caso di infortuni.

La squadra dei sogni così assemblata si ritrova per la prima volta a La Jolla, in California, per preparare il Torneo delle Americhe di Portland che li avrebbe qualificati ai Giochi.

La prima partitella ufficiale fu contro una selezione di collegiali, tra cui spiccavano i nomi di Bobby Hurley, Penny Hardaway, Grant Hill e Chris Webber. Qui la leggenda narra che coach Daly riuscì nella magata di far perdere apposta la squadra, applicando rotazioni sbilenche e facendo giocare pochissimo Jordan.

Se permettete, dubitiamo: raramente un coach può influire così tanto da far perdere una squadra, oltretutto una squadra come quella, che anche senza Jordan aveva talmente tanto vantaggio tecnico, fisico e di esperienza che avrebbe dovuto strapazzare i ragazzini. In ogni caso la sconfitta ci fu, e Daly fu considerato un genio per aver fatto capire alla squadra che non era il caso di prendere sottogamba nessuno, ottenendo un credito presso i giocatori, da allora costretti ad ascoltarlo. Se ci volete credere…

La cosa certa fu che quella sconfitta accese un moto di orgoglio nei Dream Teamers, che nella rivincita del giorno dopo annientarono gli avversari (per la versione del lato A: con rotazioni giuste e Jordan pienamente impiegato).

Al torneo delle Americhe la passerella fa intuire quello che sarebbe successo poi a Barcellona: punteggi stratosferici, avversari annichiliti che pensavano più ad immortalare il momento da raccontare ai nipotini (“sai, ho giocato contro Michael Jordan e Magic Johnson una volta”) che a giocare davvero. Il torneo venne vinto facilmente, e la missione per riconquistare l’oro olimpico poteva proseguire.

La squadra si sposta dunque in Europa, come abbiamo detto a Montecarlo, per ragioni diciamo extracestistiche. Una prima amichevole contro la Francia viene vinta, ma in maniera non troppo esaltante. Daly decide che è il caso di spingere un po’ sull’acceleratore e il giorno successivo all’allenamento ordina “Ok, ora vediamo come sapete giocare: 5 contro 5, dateci dentro”.

Le superstar lo presero in parola, e quello passò alla storia come “la miglior partita di tutti i tempi”, secondo le parole di Jordan. Maglie blu contro maglie bianche: da un lato la squadra di Jordan, con Pippen, Bird, Malone, Mullin e Ewing. Dall’altra parte Magic a guidare Barkley, David Robinson, Drexler e Stockton.

La squadra di Magic balza al comando 14-2, al che il playmaker gialloviola comincia a stuzzicare MJ, dicendogli che sarebbe stato meglio incominciare a giocare. Da lì parte una sfida che, a detta dei presenti (giocatori, staff tecnico, e qualche giornalista ammesso solo verso la fine dell’allenamento), non ha eguali nella storia del gioco.

Jordan contro Magic, Barkley contro Malone, Ewing contro Robinson, tutti alla morte in un clima che con le mascherate dell’All Star Game (l’unico evento dove si possono ritrovare sulla carta sfide di questo livello) non aveva nulla a che vedere. 11 Hall of Famers, ognuno con la voglia di dimostrare al pariruolo avversario di essere il migliore. Il risultato? Vinse la squadra di Jordan, e quello fu più di ogni altra cosa il vero passaggio di consegne tra i grandi della vecchia generazione e la nuova superstar.

Tutto quello che successe poi, a Barcellona, è storia. Gli scarti stratosferici, gli zero timeout chiamati da coach Daly, l’isterismo dei fan accalcati sotto l’albergo notte e giorno… Una squadra che partiva vincente solo per l’atteggiamento che induceva negli avversari (venerazione piuttosto che competizione).

Strette di mano, foto, autografi chiesti da chi scendeva in campo teoricamente per contendere il risultato danno già l’idea che il Dream Team fosse sì la squadra designata a vincere in partenza, ma designata da chi teoricamente doveva provare a batterla!

Una squadra irripetibile, 11 Hall of Famers (e se avessero portato Shaq al posto di Laettner sarebbero stati 12!), 10 dei migliori 50 giocatori di ogni tempo, delle vere e proprie icone che hanno segnato la storia sportiva (e non) americana (e non).

L’impatto del Dream Team fu dirompente: in qualsiasi angolo dei 5 continenti il basket fu rappresentato nella sua massima espressione e ciò contribuì non poco a farlo diventare quel global game che è oggi. Nowitzki, Ginobili, Parker, Kirilenko, Yao sono tutti in qualche modo “figli” di quella estate, di quella Olimpiade, di quella squadra.

Al di là dell’oro olimpico riconquistato, al di là dello spettacolo tecnico offerto, la vera grandezza di quella squadra a 20 anni di distanza è ancora qui, davanti a noi. Per questo, gliene saremo sempre grati.

4 thoughts on “We are still Dreaming…

  1. Al di là dell’oro olimpico riconquistato, al di là dello spettacolo tecnico offerto, la vera grandezza di quella squadra a 20 anni di distanza è ancora qui, davanti a noi. Per questo, gliene saremo sempre grati.

    Cazzo se hai ragione! I discorsi su quale tra i due Dream Team sia il più forte stanno a zero, uno ha creato il basket globale, adesso si tenta solo di imitarlo cosa che mai si riuscirà a fare ne ora ne mai.

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