• “Dear Dad, Thanks for taking care of me because I know without you I would not be me. Thanks for teaching me basketball. I have a long way to go. I want to follow you. I love you and always will.”

kyr55644L’autore di queste parole( datate 2002) si chiama Kyrie Irving, ha 10 anni e vive a West Orange, nel New Jersey. Il destinatario, ovvero “dad”, è Drederick Irving, ex giocatore di pallacanestro dei Bulleen Boomers .

Inutile il tentativo di spulciare qualsiasi almanacco di pallacanestro americana o europea; i “Bulleen Boomers” sono una squadra professionistica che difende i colori della città di Melbourne, Australia.

La  terra dei canguri e della grande barriera corallina è proprio lo scenario iniziale di questa storia, partorita dalla mente di un novellista che abbia appena fatto indigestione di classici Disney. Il classico sensazionalismo made in U.S.A, penserete voi. Troppo bella da poter esser raccontata degnamente, vi risponderei io. Con l’obiettivo, se non del “bello” almeno del “discreto”, ci si può proviamo.

Kyrie Irving nasce il 23 Marzo del 1992 a Melbourne, da mamma Elizabeth, giocatrice di pallavolo durante gli studi al college e papà Drederick, secondo miglior realizzatore nella storia di Boston University (medesima università della moglie) che, dopo non aver trovato posto sul treno Nba, aveva accettato di trasferirsi in quella terra così lontana, pur di poter giocare a basket sul serio.

Fin da subito si avverte che l’esistenza del pargolo sarà fuori dall’ordinario, costellata da tanti eventi che si farebbe fatica a non ricondurre ad un preciso disegno del fato. Tanto per cominciare, Kyrie , in greco, significa “signore”.

La leggenda, inoltre, narra di un piccolo infante di 13 mesi, un’età nella quale a quasi tutti gli esseri umani, ivi compreso il sottoscritto, i genitori insegnano ad utilizzare al massimo le posate, in grado di palleggiare guardando negli occhi il padre. Il tutto ripreso e documentato da una vecchia 8mm. Realtà più che leggenda.

Di lì a pochi mesi, papà Drederick decide di tornarsene negli Stati Uniti, per fare l’agente di borsa e dare un futuro più solido alla propria famiglia. I piani vengono sconvolti  quando mamma Elizabeth muore a causa di un’infezione dell’apparato circolatorio. Kyrie ha solo 4 anni.

Da questo momento in poi, l’unico riferimento nella vita sua e quella di sua sorella Asia sarà papà Drederick. Padre, amico e approdo sicuro. Dred è tutto per i suoi figli. Per il suo ragazzo, però, è anche un maestro ed un avversario.

Già, perché è nata una relazione viscerale tra i due: il verbo e gli insegnamenti paterni vengono impartiti con l’ausilio della palla a spicchi. La sera, dopo aver finito i compiti, i due scendono nel vialetto di casa, papà Dred accende i fari della sua auto e l’ 1 vs 1 può iniziare.

Ogni benedetta sera, anno dopo anno avreste potuto trovarli lì. Tutto spiegato nel senso di quella lettera riportata all’inizio di questo articolo. Mi piace immaginarli un po’ come il padre(Denzel Washington)  e il figlio (Ray Allen) descritti da Spike Lee nel film “He got game”. Drederick insegna e il piccolo Kyrie è pronto lì ad apprendere e a carpire i trucchi.

Un giorno, mentre Kyrie frequenta le elementari, si reca in gita alla Continental Airlines Arena e, una volta sulla via del ritorno, dirà sicuro ai propri amici : “I will play in Nba, I promise”.

Tornato a casa, nella sua stanza, decide che non gli basta dirlo, vuole anche scriverlo, vuole trovare un modo per renderlo indelebile. Lo scrive , per davvero,  su di un muro nascosto dietro un pannello del suo armadio.

In camera sua, però, c’è un altro indizio fondamentale che immortala il rapporto tra i due uomini di casa Irving: su di un muro, papà Dred ha tracciato una riga con accanto scritto 6 4’ (1 m e 93 cm). La sua altezza. Spera che suo figlio diventi più alto di lui ed ogni mese  controlla i progressi del ragazzo, disegnando tacche sulla parete. Kyrie (1.91 m), non supererà mai il padre in altezza, ma non ne avrà bisogno. Dalla sua ha un talento innato, da predestinato, da “Real Deal”, come lo definirà Jeff Van Gundy, dopo averlo visto giocare.

Arriverà presto il momento della certificazione di quel talento. Milionesimo 1 vs 1 che i due giocano sul playground di South Orange; 16 punti Kyrie, zero per papà Dred. Detronizzazione e passaggio di testimone. A questo punto, potremmo perder ore intere considerando la  la miriade di aneddoti che si potrebbero raccontare sull’infanzia della prima scelta del draft 2011. Simmetricamente, ci sarebbero almeno altrettante “slinding doors” che questa narrazione  avrebbe potuto imboccare.

L’esempio principe, divenuto in poco tempo di dominio pubblico negli Stati Uniti, è la storia di papà Drederick che si licenzia dal World Trade Center, dove lavorava al 45° piano, pochi mesi prima dell’ 11/9 e che, quello stesso giorno, dovette percorrere a piedi 11 miglia, in quella New York paralizzata dal terrore e dalla paura, prima di poter contattare e rassicurare i suoi figli.

Insomma, fin dalla culla, di ordinario nella vita di Kyrie Irving c’è stato davvero poco. La sua storia cestistica non poteva che presentarsi con la medesima fenomenologia: perennemente in bilico tra ascesa e caduta, su di una corda sottile sospesa tra l’obbligo di dover essere il migliore e il destino che sembra non rendere mai agevole il poterlo dimostrare.

Una volta arrivato a St. Patrick High School, prestigiosa scuola cattolica del New Jersey, frequentata a suo tempo anche da Al Harrington e Samuel Dalembert, è subito circondato dallo spasmodico interesse di chi vuol constatare quanto di vero ci sia nella sua fama. Prima partita, Kyrie va un paio di volte tra le gambe, penetra lungo la linea di fondo e anticipa il ritorno del difensore con il consueto drop step.

Chissà quante volte l’avrà mandato a bersaglio un tiro così. Quella volta no. Bum, palla sul bordo del tabellone. “Over-rated” “Over-rated” “Over-rated” è il coro che istantaneamente il pubblico inizia ad intonare. Saranno necessari solo pochi mesi e gli stessi seduti sugli spalti quel giorno, faranno a gara per stringergli la mano e complimentarsi con lui. Da quell’episodio Kyrie, però, non ha fatto fatica a ricavarne una preziosa morale: ad uno come lui difficilmente sarà  mai concesso di sbagliare.

Nella scelta del college, nonostante la corte serrata di tutti gli scout del panorama Ncaa, quando a casa sua, West Orange, arriva una lettera scritta e firmata da Mike Krzyzewski, capisce che è il destino che lo sta, ancora una volta, chiamando. Il figlio di Drederick Irving ha deciso che è Duke il posto dove “portare i suoi talenti”(ogni riferimento a cose e/o persone realmente esistenti è puramente voluto).

E sarà la scelta giusta. L’esperienza in maglia “Blue Devils0” gli fornirà un lascito importantissimo per la sua crescita e  per la sua formazione, soprattutto al di fuori dei listelli di legno che compongono il parquet del “Cameron Indoor Stadium”. Sul campo, disputa 11 gare in tutta la stagione a causa di un infortunio all’alluce del piede destro. 17,5 punti, 3.4 rimbalzi, 4. 3 assist , il 52,9% dal campo e il 90% “on the charity line”, sono i numeri che mette a referto ad ogni allacciata di scarpe. “Se fossi stato sano tutta la stagione, avremmo vinto il titolo. Non ho dubbi”.

Effettivamente ad avere dubbi a riguardo, sono in pochi. Nonostante i dubbi e le incertezze per quella stagione sfortunata  sembrerebbero scalfire le sue ambizioni, terminata la stagione a Duke, Kyrie si ritroverà ad essere un giocatore migliore. Un uomo migliore. Il vero tesoro che il numero 2 dei Cavs porterà con ha poco a che vedere con le statistiche e con i tabellini.

Una mattina come tante altre, le cronache del campus raccontano che, subito dopo la diagnosi dell’infortunio, Kyrie irrompe piangendo nello studio di coach K , il quale non scomponendosi più di tanto, sa di aver già la ricetta pronta. Tanta fiducia, tanti suggerimenti su come affrontare le difficoltà e su come far fronte alle incredibili pressioni con la quale convive da sempre. Quel ragazzo per  Krzyzewski deve solo pensare ad elevare il livello del suo gioco.

In sintesi, una lezione di vita lunga un anno. Un momento, però. Intendiamoci, Kyrie a Duke non lascia solo lacrime e rimpianti. 1 Dicembre 2010, i Blue Devils affrontano la Michigan State di coach Tom Izzo. 10 su 15 dal campo (2 su 3 da tre punti), 6 rimbalzi, 4 assist e 13-16 ai liberi. Totale: 31 punti e un gran mal di testa per coach Izzo che dichiarerà che se avesse ripensato alla prestazione del numero 1 in maglia Blue Devils, si sarebbe certamente rovinato l’estate.

C’è un video che gira in rete su quella gara: sul totale delle 5 migliori azioni della sera, 4 portano la sua firma. Stoppa, ruba palla, avvia la transizione, spezza i raddoppi con il suo crossover e segna. Ogni volta in un modo diverso, anche tra due, tre avversari lui va fino al ferro.

E’ chiaro a tutti che quel bimbo di 13 mesi ripreso dal papà mentre palleggiava guardandolo negli occhi, è divenuto un ragazzo pronto per realizzare il proposito di una vita. Ricordate la scritta dietro l’armadio?!

To be continued…

4 thoughts on “Focus: Kyrie Irving (Part. I)

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