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“Sorpresa!”

He’s gone, he’s gone, he’s gone, he’s gone…” recitava un verso di una canzonetta dei Glasvegas di qualche tempo fa.

Se n’è andato. Dwight Howard ha lasciato Los Angeles e i Lakers, dopo solo un anno di militanza. Un anno folle, turbolento, forse maledetto ma comunque unico.

I Lakers versione 2012-13 non sono stati solo una squadra di basket, le cui fortune o sfortune si decidevano sul campo di gioco, sono stati una saga, un reality, una specie di romanzo dai risvolti imprevedibili e il più delle volte grotteschi. D’altronde siamo a Hollywood, come poteva non esser così?

Quello che sorprende invece è che L.A., con le sue luci e i suoi riflettori, non sia infine riuscita a stregare D12, bambinone di 2 metri e 11, con un’evidente propensione al gioco e alla burla. Il Degno erede di Shaq, si pensava. Sia per la tendenza a dominare nel pitturato che, soprattutto, per la personalità istrionica e fanciullesca che si portava dietro.

Beh, è ora evidente a tutti che non diverrà mai il prossimo “The Big Aristotle”. Adesso, per citare un altro grande della musica, Elton John, Dwight è un Rocket Man. Seguirà le orme di un altro “pennellone” del passato, Hakeem “The Dream” Olajuwon, se il Dio del basket guiderà i suoi passi.

Ricordo ancora quando, appena arrivato nella Città degli Angeli nell’autunno scorso, fu ospitato al popolare Ellen DeGeneres Show e, di fronte al pubblico televisivo, si esibì nel celebre ballo “gangnam style”, mandando in sollucchero gli astanti, pronti più che mai ad accogliere le sue proverbiali “pagliacciate”.

Alla fine dell’esibizione, mostrò però di essere in evidente affanno. Due semplici passi di danza gli avevano procurato infatti il fiatone. Era reduce da un’operazione importante. C’erano molti dubbi sulla sua effettiva resa in campo, almeno nella prima parte dell’anno.

La stagione è andata, i Lakers sono finiti in vacanza ben prima del previsto, e la piena forma fisica Howard non l’ha mai ritrovata. Forse è andato meglio nel finale. Comunque sempre troppo poco per uno come lui che si pensava fosse in grado di rivoltare la Western Conference come un calzino.

Difficile dire con precisione fino a che punto l’inconsistenza mostrata per ampi tratti sul parquet durante l’ultima stagione fosse dovuta alle sue reali condizioni fisiche e quanto invece tendesse a isolarsi dalla manovra perchè non si sentiva coinvolto negli schemi di D’Antoni.

Quel che è ragionevole pensare, sulla base dei comportamenti che da 2-3 anni a questa parte mette in atto e delle dichiarazioni che non si esime dal rilasciare, è che Dwight non sia ancora pervenuto ad uno stadio di completa maturità, a livello umano prima che tecnico.

Non può essere ritenuto soltanto un caso infatti che, con il fresco atterraggio nella Space City, il nostro sia solo il sesto Hall of Famer (un giorno lo sarà di certo, a meno di grossi e imprevedibili ribaltoni) ad aver cambiato almeno 3 squadre prima del compimento del 28esimo anno di età. Gli altri sono – così solo per dovere di cronaca – Adrian Dantley (4), Bob Houbregs (4), Bob McAdoo (3), Alex English (3) e Moses Malone (3).

Se non altro questo contribuisce a testimoniare lo stato di apparente confusione che ha contraddistinto il suo percorso NBA fino a questo momento. Come dire.. non mi sembra che abbiamo proprio le idee chiare da queste parti.

L’altalena di notizie a cui abbiamo assistito in questi giorni, prima che si arrivasse alla decisione definitiva, ha dell’incredibile. Prendendo per vero quello che è trapelato attraverso la stampa, il nativo di Atlanta, si è trovato davvero in una condizione di indecisione che non esito a definire cosmica.

Ha in prima battuta ammiccato ad un possibile ritorno a casa, agli Hawks, seppur sempre subordinato alle eventuali mosse dell’amico Chris Paul (sì perchè, come nella scelta della scuola media, si va dove va l’amico del cuore, anche se in questo caso non si può soprassedere dal precisare come l’amico in questione sia anche il miglior play della lega).

Ha quindi strizzato l’occhio ai Mavs e all’eccentrico proprietario Mark Cuban, non foss’altro che per la promessa di fornitura a vita di alette di pollo che una catena di fast food di Dallas chiamata Raising Cane gli garantiva.

Si è dichiarato poi piacevolmente colpito dall’organizzazione dei Warriors e dalla sapienza tattica di Coach Jackson, tanto da scombussolare tutti gli scenari fin lì ipotizzati. Infine, quando si era già diffusa a tutte le latitudini la notizia che avesse finalmente compiuto la sua scelta in favore dei Rockets (Espn Los Angeles e Usa Today in prima linea), Superman se n’è uscito con un 50-50 fra texani e los angelini che ha appassionato per un’oretta buona gli americani, come catapultati di fronte ad un avvincente testa a testa fra 2 purosangue nel celebre Kentucky Derby.

Il tam-tam dei tweet degli esperti che si susseguivano nel tardo pomeriggio – orario della west coast – del 5 luglio è stato, se così si può dire, quantomeno esilarante. Una sospetta concomitanza di voci e rumors da cui si evinceva da una parte che prima i Mavs e poi Hawks e Warriors si erano definitivamente tirati indietro dalla corsa per Howard, dall’altra che una non meglio specificata fonte all’interno della delegazione dei Lakers in visita di cortesia dal 12 nei giorni precedenti aveva “cantato” definendo il giocatore come piuttosto indifferente, finanche impassibile e restio alle lusinghe, aveva contribuito a orientare i pareri in una ben determinata direzione.

Le manovre dei Rockets nell’ottica di liberare ulteriore spazio nel salary cap – vedi Royce White spedito ai Sixers, probabilmente in treno, vista la sua conclamata fobia per il volo – avevano fatto il resto.

Tuttavia in serata l’opinionista di Espn J.A. Adande evidenziava come ancora non fossero arrivate parole ufficiali dal giocatore. A lanciare definitivamente la bomba atomica ha pensato però Chris Broussard: secondo il giornalista di Espn infatti Dwight Howard, poco prima del calare della sera californiana si sarebbe trovato in volo per Los Angeles (ad aspettarlo all’aeroporto Mitch Kupchak con un forziere d’oro), vittima di uno dei suoi rinomatissimi ripensamenti, incapace di decidere fra le due squadre e costretto per questo quasi a ricorrere al lancio della monetina.

Gli faceva eco immediatamente Marc Stein, altro columnist della Espn, che informava i suoi lettori del fatto che Howard fosse in realtà ancora titubante. “Hey, he’s Dwight,” cinguettava. “This league, man. This league.”

La parola fine sulla vicenda la metteva quindi il GM dei giallo-viola Kupchak dichiarando di essere stato informato della decisione definitiva di Howard di non tornare ai Lakers nella stagione ventura. Sul profilo twitter di Bryant compariva allora la foto di lui e Pau Gasol insieme con l’hashtag lakercorazon, su quello di Howard il classico fotomontaggio con l’uniforme dei Missili. Fine della Dwight Saga dopo 2 anni di tribolazioni, rovesci e temporali.

Veniamo quindi alle ragioni tecniche e motivazionali di tale scelta, che ha finito per modificare inevitabilmente gli equilibri della Western Conference. Non è mai facile addentrarsi nelle pieghe dei ragionamenti che stanno alla base della decisione di un giocatore di cambiare squadra. Lo è ancora di meno se la testa da ispezionare in questione è quella di Dwight Howard.

A detta del giocatore sono risultate decisive l’età media nettamente inferiore del roster di Houston e la presenza in panchina di un allenatore come Kevin McHale. Fin qui, impossibile dargli torto.Se per convalidare la prima basta munirsi di calcolatrice e scorrere i nomi delle due squadre, sulla seconda considerazione il ragionamento si fa però un po’ più complesso.

Che Mike D’Antoni non fosse gradito al giocatore, per usare un eufemismo, l’aveva capito anche il custode della palestra di El Segundo. Kupchak, che non è l’ultimo arrivato, lo sapeva.

Per qualche motivo misterioso però ha deciso di sostenere l’ex Olimpia Milano e il suo sistema di gioco a spada tratta, fin dal primo giorno in cui si è presentato a Los Angeles, ancora convalescente per l’operazione al ginocchio, e nonostante risultati e pareri alterni. Ha deliberatamente scelto di scherzare col fuoco.

Dal punto di vista etico un comportamento impeccabile. Non si può continuare a dare tanto potere a giocatori spesso capricciosi e tanto volubili, diranno i più. Ed Effettivamente Mitch non si poteva permettere di mandare a casa un altro allenatore così, a cuor leggero, e senza avere alcun tipo di assicurazione in cambio da Howard.

Tuttavia un General Manager non può prescindere da considerazioni di natura squisitamente tecnica e, se davvero Kupchak considerava il 12 il perno del futuro dei Lakers, avrebbe potuto accontentarlo. Spesso nella Lega si è agito così – si veda la vicenda Paul ai Clippers.

Che poi la soluzione del puzzle per Dwight si chiamasse Kevin McHale era tutto fuorchè scontato. Fin dalle primissime dichiarazioni il giocatore ha mostrato di stimare oltremisura il suo nuovo Coach ai Rockets: “Nessuna offesa per D’Antoni ma stiamo parlando di Kevin McHale, che ha un milione di movimenti in post basso.”

Eccola là la motivazione: finire alla corte di uno dei lunghi più forti della storia. Così che il ragazzo possa finalmente affinare la sua tecnica in pace. In modo che la sua famelica richiesta di giochi in post basso venga al fine compresa.

Peccato che gli Houston Rockets della passata stagione si siano classificati ultimi per percentuale di possessi in post-up (solo il 4% del totale) e da tale zona del campo abbiano ricavato solamente 3.5 punti per gara, ben 2.4 in meno di quelli segnati dal solo Howard ai Lakers (7.3 in meno se si considera l’ultima stagione ai Magic). Certo sono solo statistiche. Di per sè non sono in grado di spiegare nulla.

Però siamo ai Rockets, la squadra il cui GM, Daryl Morey, è ossessionato dalle statistiche. E’ uno dei più convinti assertori del nuovo corso dello sport americano che vuole sempre più la matematica come risorsa preziosa alla base di schemi e giochi. Non più di qualche mese fa dichiarava infatti: “McHale crede in un sacco di cose che le nostre analisi (statistiche) confermano, cose che sono in linea con il modo in cui si dovrebbe giocare.”

Se mettiamo da parte per un attimo i dati e ci concentriamo sul nudo e crudo responso del campo, non possiamo non considerare come Omer Asik, ovvero il giocatore che ha scaldato lo spot di centro prima della venuta di Superman, mettesse a segno la maggior parte dei suoi canestri su azione in situazioni di gioco senza palla (tagli a canestro e pick & roll).

Come non hanno mancato di far sapere dal Management dei texani, la scelta del tipo di gioco da adottare da parte di Coach McHale è dipesa esclusivamente dalla tipologia dei giocatori a sua disposizione. Segno di intelligenza, una dote che, ne siamo certi, non fa difetto all’ex-pilastro dei Celtics anni ’80.

Magari l’acquisto di un perno d’area con le caratteristiche di Howard era proprio ciò che serviva ai Rockets per fare il definitivo salto di qualità e per rendere così ancora più mortifera la combinazione di penetratori e tiratori che possono schierare insieme sul campo.

Non è un caso che i Magic di Howard che raggiunsero la finale nel 2009 avevano a roster una batteria di tiratori in grado di punire gli scarichi provenienti dai raddoppi sul lungo come Lewis, Lee, Redick, Bogans, Nelson ma anche Pietrus, Johnson e Turkoglu.

Già i Rockets versione 2012-13 si sono piazzati al secondo posto per la media di triple tentate (28.9) ad allacciata di scarpe, facendo registrare un dignitoso 36.6% da oltre l’arco. Figurarsi quanto possa beneficiare la qualità dei tiri dei vari Harden, Parsons, Lin, Garcia e Beverly con l’aggiunta di una tale minaccia in mezzo al pitturato.

La partenza di Carlos Delfino rischia di farsi sentire in questo impianto di gioco, ma Daryl Morey – che sembra uscito direttamente dal film Moneyball – non starà certamente a guardare e, sulla scia del modello Heat, non è impossibile ipotizzare che vada a caccia di role player a basso costo, meglio se spot-up shooter, per puntellare l’organico.

La combinazione che vede Howard sotto canestro e la coppia Harden-Parsons sul perimetro minaccia di costituire uno dei più grossi grattacapi recenti per gli allenatori di tutta America. Fino a qualche tempo fa assemblare un trio del genere avrebbe determinato immediatamente l’innalzamento della bandiera bianca da parte di tutti gli altri contendenti. Sarebbe stato considerato un mix letale. Oggi non basta.

Non è sufficiente per gli attuali standard NBA. Il che non vuol dire necessariamente che la pallacanestro che si gioca oggi oltreoceano sia più competitiva di prima ma semplicemente che segue dettami differenti. Nè tanto meno tale assembramento di giocatori sullo stesso parquet è in grado di fugare tutti i dubbi che un cambiamento così drastico a livello di filosofia di gioco può comportare per la squadra del Texas.

E’ innegabile infatti che, alla luce dell’acquisizione di Howard, Kevin McHale dovrà rivedere molte delle possibilità del suo arsenale di gioco. Lo scorso anno gli Houston Rockets hanno giocato a un ritmo altissimo, il più alto di tutta la lega.

Si sono classificati primi per media possessi nei 48 minuti con 98.8. Difficile capire come questo dato abbia spinto Howard, frustrato dal ritmo frenetico dell’ up-tempo di D’Antoni, a scegliere un sistema di gioco ancora più veloce, definito dagli stessi Rockets “flow & roll”.

Dice Chandler Parsons: “C’è così tanta libertà, così tanto spazio, così tanto campo aperto…”

Quello che si è capito chiaramente è che Howard stima McHale, come probabilmente, all’inizio di ogni esperienza passata con nuovi Coach, ha stimato Hill, Van Gundy, Brown e per ultimo D’Antoni.. no, forse D’Antoni no. McHale ha dalla sua la nomea di allenatore che concede una discreta libertà ai giocatori. Non è famoso per essere un maniaco del controllo.

Non tira troppo la corda con i suoi. E questo potrebbe aver fatto la differenza. Del resto si sa, o comunque ce l’hanno detto in momenti diversi Shaquille O’Neal, Phil Jackson e Steve Kerr: Howard non ama troppo la pressione. Quella della città degli angeli è risultata eccessiva. Quella di condividere lo spogliatoio con uno come il Mamba assolutamente insostenibile.

Molto meglio Houston che, anche se non è di certo l’ultimo mercato NBA quanto a visibilità, non pretende che tu sposti fin da subito come Chamberlain o Kareem Abdul-Jabbar.

Steve Kerr in particolare, nella sua veste di analista TNT, parla senza mezzi termini di Addition by Subtraction: “Tifosi dei Lakers non dovete essere dispiaciuti, non avete perso una superstar. Howard è un gran giocatore, ma non una superstar.”

Dwight, dal canto suo, sostiene di aver scommesso 30 milioni di dollari sui Rockets – ovvero la differenza fra i 118 in 5 anni che gli offrivano i Lakers e gli 88 in 4 che dovrebbe percepire nella Space City – come a voler difendere l’onestà della sua scelta ma soprattutto testimoniare la fiducia che nutre nelle possibilità della sua nuova squadra di vincere l’Anello.

Ad esser puntigliosi, facendo per così dire i conti in tasca al 12, quest’argomentazione perde un po’ di consistenza. Al netto della differenza determinata dalle norme di tassazione fra Stato e Stato, che colloca la California sul gradino più alto per ammontare delle imposte da corrispondere all’erario e il Texas in una delle ultime posizioni, emerge che la somma lasciata sul tavolo da Howard al momento della sua decisione non è poi così cospicua. Ciò che pare aver smosso realmente le pedine della scacchiera è la possibilità di legare le proprie fortune a medio e lungo termine ad un giocatore come James Harden.

“Era nella squadra di Kobe Bryant, cosa va a cercare altrove?” si potrebbe argomentare. La differenza l’ha fatta la carta d’identità. Il Barba finirà 24 anni il prossimo 26 agosto. Ha un’intera carriera davanti a sè. Howard non ha mai fatto mistero di considerarsi al posto giusto nel momento sbagliato. Non ha mai perso occasione di sottolineare il fatto che la sua toccata e fuga da Los Angeles sia in realtà dipesa esclusivamente da una questione di tempismo, di mancato tempismo si potrebbe quasi dire: 2-3 anni fa sarebbe rimasto.. fra 2-3 anni ci avrebbe sicuramente potuto fare un pensierino.

Non era convinto della possibilità di vincere subito a L.A., non credeva nella bontà di un progetto che lo vedeva affiancato da quattro vecchiarelli. Riteneva il ciclo di Gasol e soci definitivamente concluso. Invece di guardare agli altri, avrebbe potuto anche interrogarsi sull’effettivo contributo da lui portato, complice la lenta ripresa dall’infortunio, in questi mesi appena trascorsi alla causa del Titolo, ad un’eventuale riapertura di un ciclo.

Avrebbe potuto assumersi quella parte di responsabilità che probabilmente ha avuto, al pari di altri, nel fallimento di quest’anno e stringere un patto d’onore con tutti gli sfortunati protagonisti della passata stagione per scendere sul parquet dello Staples, rinnovato nel vigore e nello spirito, in cerca di rivincite.

Non lo ha fatto. O, se lo ha fatto, può darsi che abbia pensato anche che tutto ciò non potesse durare che per un altro anno soltanto, oltre il quale i suoi compagni sarebbero inevitabilmente tramontati, e ha deciso così di rispondere alle sirene barbute.

Senza considerare che, nonostante le cortesie di facciata, il rapporto fra Howard e Kobe non è mai realmente decollato. Troppo diversa la rispettiva concezione del gioco.

Bryant non l’ha mai ritenuto degno di sedere al proprio tavolo, privilegio riservato a non più di una manciata di eletti – lo spagnolo si siede fra i primi – e per accedere al quale probabilmente Howard avrebbe dovuto mostrare maggiore dedizione alla causa e, perchè no, etica del lavoro.

Dwight dal canto suo non ha mai riconosciuto a Bryant la patria potestà su tutti gli altri giallo-viola, non legittimando mai di fatto quella leadership onnipotente dalla quale il 24 è sempre stato ossessionato.

Viene da chiedersi adesso come si rapporterà col Barba. Harden infatti per tendenza a dominare compagni e avversari e accentrare il gioco su se stesso è forse fra i nuovi astri nascenti della fulgida galassia NBA quello che più ricorda il Mamba. Possiede una certa qual propensione a prendersi la scena, anche a scapito del naturale flusso di una partita.

E’ più altruista, probabilmente è vero. Ha già dimostrato di saper convivere in passato con superstar del calibro di Durant e Westbrook. Però non appena ha avuto la possibilità di spiccare il volo dal nido cestistico dei Thunder, nel quale evidentemente si sentiva costretto, lo ha fatto. Ed è sbocciato in tutto il suo splendore. Poco importa se nel passaggio ai Missili ne ha beneficiato in primis il suo conto corrente.

E’ lecito infine chiedersi se Howard riuscirà mai ad adattarsi all’eventualità, tutt’altro che impossibile, di diventare il secondo violino del Barba. Se accetterà di condividere gli onori della ribalta col più giovane compagno, le quotazioni dei Rockets sono in ascesa. Resta da vedere prima di tutto se egli sarà in grado di presentarsi ai blocchi di partenza in condizioni migliori dello scorso ottobre.

Quello della stagione appena trascorsa è stato infatti molto poco Superman e molto più Clark Kent. Per il momento la scossa sismica data da questa illustre firma alla Western Conference è stata registrata. Non ci resta che aspettare per conoscerne l’entità.

Di sicuro i Lakers escono dal ranking delle prime 8, quelle che accedono alla post-season, a meno di improbabili trade e capovolgimenti. I Rockets invece si inseriscono di diritto nel quintetto d’elite che comprende, non necessariamente in quest’ordine, Thunder, Spurs, Clippers e Warriors. Occhio ai Grizzlies che già quest’anno hanno sovvertito le gerarchie di inizio anno e alla mina vagante Denver, anche se non si capisce più verso quali lidi stiano navigando dopo le ultime defezioni.

 

8 thoughts on “Focus: Rocket Man

  1. Scelta rispettabile quella di Howard. I modi ed i tempi invece sono discutibili.
    Come è fuori da ogni legittimo dubbio che è un ottimo giocatore, ma non una Superstar (Kerr ha detto bene), che non ha mai avuto un’etica lavorativa lampante perchè sostenuto da un fisico scolpito nel marmo, inoltre è palesemente immaturo a questi livelli e gli anni sono 28, non 20.
    Scelta rispettabile di andare a Houston perchè più giovani, perchè sono una squadra che ha fatto i PO quest’anno quando ad inizio stagione scorsa, prima dell’acquisizione di Harden, erano pura rumenta, perchè hanno chance ad Ovest di poter arrivare in fondo.
    Ma ciò non toglie che Howard sposterà il giusto, non così tanto come tutti credono. E penso che Spurs, Thunder, Clippers e Memphis siano in qualche modo superiori ai Rockets. Potrebbero arrivare in finale per una serie di eventi, come fermarsi al secondo turno.
    La vera critica che muovo ad Howard è che in 8-9 anni di NBA, non è assolutamente migliorato a livello di movimenti in post, a parte un gancetto assolutamente terribile e la solita schiacciata, non ha null’altro e questo è molto grave. Metterlo a fianco di Chamberlain, Kareem, Shaq, Olajuwon è un’eresia.
    Shaq e lo stesso Kareem si sono espressi non proprio in modo edificante nei confronti di Howard e credo che abbiano buona parte della ragione.
    Nessuno sta dicendo che è un giocatore scarso, ma si sta semplicemente dicendo che deve dominare molto di più di quanto faccia ora.
    Ed io la butto lì…secondo me chiude la carriera con zero o forse un anello, ma da assoluto comprimario quando ormai è al tramonto della sua carriera.

  2. Howard non è mai stato decisivo in una qualsiasi partita che contasse qualcosa! Di cosa stiamo parlando? Sento commenti di lakers che sono arrabbiati con la dirigenza e si strappano i capelli… Sveglia gente c’è da stappare una bottiglia di quelle buone per festeggiare! E come dici tu la dirigenza sapeva bene come fare ad allontanare il bambinone….

  3. siamo kilometri distanti da un giocatore dominante…da sano dominava piu’ Bynum, piu’ rimbalzista e con movimenti gia’ memorizzati in post…poi la testa e’ un’altra cosa…ricordiamoci che anche a Orlando nei finali di partita faceva o panca o rimbalzista-apri in fretta x Nelson che passa al turco che segna da 3…e D12 era ancora sotto il suo canestro…stia pure a Houston, non c’e’ problema…Kobe, Gasol, adesso Young…ai playoff ci vanno gratis…

  4. da tifoso Lakers posso dire che comprendo Howard e quindi per me lui ha fatto il meglio per la sua carriera. ovvio avrei preferito che restasse. alla dirigenza, come evidenziato nell’articolo, imputo la colpa di averlo voluto e poi aver preso d’antoni. non credo che nessuno si aspettasse grandi cose dal baffo quando è arrivato. la cosa triste è che ha fatto pure peggio.

  5. Secondo me i Lakers non hanno perso niente…ricostruire da Howard era un’azzardo..non è Shaq..
    è un ottimo difensore e poi si vivacchia dall’altra parte…
    e Howard ha fatto bene a scegliere Houston..l’unica squadra dove può starci benissimo e fargli fare il salto..
    adesso guardiamo..a ovest si sono rinforzate in parecchie squadre…ci sarà da divertirsi…

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