ivesal797Allen Iverson. Ovvero: l’impossibile che diventa realtà su un campo di pallacanestro, la rivincita del normotipo e l’apoteosi del Davide che sfida, spesso battendolo, il Golia di turno.

Allen da Newport, Virginia, ha da poco scritto la parola fine in calce a una delle carriere più entusiasmanti e contraddittorie dello sport a stelle e strisce. Iverson sta al basket come George Best sta al calcio: talento abbacinante, fascino magnetico e la spiccata tendenza a fare di testa propria.

AI ha sempre rifuggito il compromesso, andando dritto per la propria strada e non esitando a mettersi contro tutto e tutti quando (la maggior parte delle volte, ça va sans dire) era convinto di essere dalla parte del giusto; prendendosi il ruolo di protagonista di un film senza lieto fine, la logica conclusione di una storia in cui il “bad boy” soccombe non senza lasciare il dubbio che i cattivi veri fossero altri.

Il prologo della vita del folletto di Hampton è una tipica storia da ghetto americano: concepito dalla madre Ann, appena quindicenne, che lo cresce insieme alla nonna a Newport News (meglio nota con il non invidiabile pseudonimo di “Bad News” a causa di un tasso di omicidi tre volte più alto della media nazionale), Allen si ritrova praticamente a essere l’uomo di casa a dodici anni di età. L’idillio con la pallacanestro è già avviato, non senza qualche tentennamento iniziale: il primo amore del giovane Iverson, infatti, è il football; e lo resterà fino agli anni del liceo (con storica doppietta di titoli nazionali portati a casa tra palla ovale e parquet), fin quando quello che un tempo considerava uno “sport da signorine” prese il sopravvento.

Una strada illuminata da un talento sfolgorante, che però rischia di essere presto oscurata dall’ombra di un caso spinoso finito sulle prime pagine dei giornali dello stato: un incontro ravvicinato con un gruppo di ragazzi bianchi, sfociato in una rissa culminata col ferimento di una ragazza, costò a Iverson un controverso processo che lo vide condannato a cinque anni di carcere.

La sentenza, per un beffardo scherzo del destino, fu emanata applicando una norma ormai in disuso e ideata a suo tempo per reprimere le aggressioni a sfondo razziale compiute dal Ku Klux Klan. Allen uscirà di prigione quattro mesi dopo, per decisione del governatore della Virginia, ma l’esperienza lo segnerà per sempre: le voci e la nomea di piantagrane lo inseguiranno per il resto della carriera, mentre il suo atteggiamento di uomo solo contro il mondo, diffidente verso tutto ciò che è esterno al suo clan, diverrà ancora più marcato.

Inizia così la storia di The Answer; un soprannome, una risposta. A tutto: a una vita che non fa sconti, a un fisico per molti inadeguato per inseguire un sogno chiamato NBA. “Quando ero piccolo, tutti mi prendevano in giro quando dicevo di voler diventare un giocatore di pallacanestro professionista. Io rispondevo che secondo mia madre avrei potuto essere tutto quello che avrei voluto; ma loro ridevano e non credevano alle mie parole… Adesso tocca a me ridere”.

E può farlo di gusto Allen, perché nella lega ci arriva eccome, passando per la porta principale della prima scelta del draft 1996: sono i Philadelphia 76ers a puntare sull’elettrico talento in uscita dall’università di Georgetown.  Quello che si instaura con la “Città dell’amore fraterno” è un rapporto unico, fatto di un sentimento incondizionato da parte di una comunità che sposa il piccolo uomo della Virginia come un figlio adottivo.

Allen è quanto di meno ordinario possa esistere: infiamma la folla e divide l’opinione pubblica, sfida e batte Jordan ma anziché essere celebrato come il nuovo che avanza viene additato come colpevole di lesa maestà. Le cifre e l’impatto sono da fuoriclasse, ma i Sixers non ingranano e il rapporto con il coach è sempre più conflittuale.

Già, perché sulla panchina di Phila siede un uomo che è un monumento alla tradizione: Larry Brown con il suo “play the right way” che è agli antipodi rispetto al modo di vivere il basket di Iverson. La corsa ai playoff si infrange per due anni di seguito contro lo scoglio degli Indiana Pacers, e i Sixers sono ormai pronti al divorzio col loro numero 3: l’offerta giusta arriva dai Detroit Pistons, ma l’affare salta all’ultimo momento per il rifiuto di Matt Geiger, un altro dei giocatori coinvolti nella trade.

Iverson resta così a Phila contro il volere di coach Brown. Ma quello che si presenta al training camp della stagione 2000-2001 è un uomo diverso: Allen sa di essere a un bivio della sua carriera, e ha tutta l’intenzione di prendere la svolta giusta. L’animo ribelle lascia il posto all’enorme cuore di un ragazzo che non accetta la sconfitta ed è pronto a tutto per portare in alto i suoi. Il cambio di rotta è evidente: la chimica con coach Brown è particolare ma vincente, e i Sixers finiscono la stagione col miglior record nella Eastern Conference.

I playoff sono una cavalcata epica: tra mille insidie e difficoltà Iverson si mette la squadra sulle spalle e la trascina alle Finals per la prima volta dal lontano 1983, al cospetto dei favoritissimi Lakers ancora imbattuti nella postseason.

Il pronostico è unanime: Shaq e i suoi faranno un sol boccone anche di Phila. La serie finale si apre allo Staples Center: Iverson si presenta al palazzo con indosso la maglia numero 3 dei Philadelphia Eagles e la bandana d’ordinanza, e una volta sceso in campo mette in scena la più grande recita della sua carriera.

Con 48 punti, 6 assist e 5 recuperi The Answer guida la cenerentola all’impresa di violare il campo degli invincibili gialloviola. La fotografia della partita è il canestro col quale Allen suggella la vittoria: un crossover da fantascienza in faccia a Tyrone Lue, un momento memorabile nella storia dei playoff NBA. Il miracolo non si ripeterà e i Lakers vinceranno le restanti gare della serie e il titolo; ma Iverson e i suoi Sixers scrivono comunque una delle grandi storie della palla a spicchi d’oltreoceano.

Puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non giochi con il cuore non ho bisogno che tu scenda in campo al mio fianco”: è la lezione di Iverson e dei suoi Sixers, che dimostrano come il cuore di un grande gruppo guidato da un fuoriclasse assoluto possa superare anche gli ostacoli più impervi.

La stagione 2001, arricchita dai premi di MVP della stagione e dell’All-Star Game, rappresenta il picco della carriera di Iverson. Il talento restava da campione, ma la chimica dei Sixers di quell’annata non tornerà mai più: accusato di scarso impegno negli allenamenti, Allen risponde per l’ennesima volta a modo suo, in una conferenza stampa leggendaria con la famosa frase “We’re talking about practice, man!” ripetuta allo stremo, quasi non capacitandosi di come qualche allenamento saltato potesse condizionare il giudizio su chi, come lui, andava in campo dando tutto, come se ogni partita fosse l’ultima.

Nel 2006 le strade di Iverson e di Philadelphia si dividono: The Answer si accasa a Denver per formare insieme a Carmelo Anthony una coppia di realizzatori forse mai vista prima; ma l’avventura in Colorado si rivela fallimentare. I Pistons riescono a portarlo a casa qualche anno dopo la famosa trade saltata proprio sul più bello, ma anche nella “Motown” Allen non raccoglie soddisfazioni.

Iverson fatica ad accettare la realtà di un declino fisico ineluttabile: partendo dalla panchina potrebbe ancora essere un’arma letale, ma il suo essere così fortemente Allen Iverson gli impedisce di accontentarsi di un ruolo marginale, visto come un ripiego inaccettabile per una stella della sua grandezza.

Il cameo a Memphis è il preludio della fine, rimandata solo dal ritorno da re nella sua unica casa, a Philadelphia; il cerchio si chiude in maglia Sixers, dove tutto era cominciato. La parentesi in Turchia è l’ultima nella carriera professionistica di un giocatore con pochi eguali nella storia della pallacanestro; un tramonto malinconico, che vede calare il sipario con l’annuncio ufficiale di qualche giorno fa.

Si chiude così la carriera di uno dei più grandi talenti visti negli ultimi anni su un campo da basket: un piccolo uomo di un metro e ottanta (con le scarpe) per poco più di settanta chili che ha saputo emozionare ed essere unico, e che forse proprio dalla sua unicità è stato tradito. Una vita sempre fuori dagli schemi, seguendo la sua strada con la voglia di essere sempre e soltanto Allen Iverson, fino in fondo.

Non voglio essere Jordan, non voglio essere Magic, né Bird né Isiah. Quando smetterò mi guarderò allo specchio e dirò: ‘Ho fatto a modo mio’”.

È arrivato il momento di guardarsi allo specchio; di darsi una risposta, quella definitiva. Missione compiuta, caro Allen: come te nessuno mai.

7 thoughts on “Allen Iverson dice basta: come lui nessuno mai

  1. bellissimo articolo…The Answer rimarra’ inimitabile..in tutto…il giocatore piu’ forte di tutta l’NBA se lo misuriamo in kg e centimetri…ripeto…come lui nessuno mai…

  2. vederlo avere i problemi personali attuali, sebbene non sia troppo sorprendente, fa doppiamente male a chi ha amato tanto vederlo maneggiare un pallone da basket… in bocca al lupo per tutto.

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