“Come giocatori, sogniamo questo momento ma non ci aspettiamo di trovarci qui. Anche se io me lo aspettavo“.
Il discorso di Gary Payton per la sua ammissione nella Hall of Fame di Sprinfield è stato tutto così, un misto di modestia e di sfacciataggine espressa con humour e autoironia che hanno strappato risate ed applausi.
Introdotto da George Gervin e John Stockton, li ha omaggiati con trasporto, definendo Gervin “semplicemente il suo eroe” e parlando di Stockton come del giocatore più difficile da marcare (“anche di Jordan. Perché? E’ la mia opinione“) raccontando come durante le sue due prime stagioni NBA abbia guardato a Stockton come ad un modello di continuità ed un giocatore duro da marcare “ed è il motivo per cui lo rispetto moltissimo“.
Ha concluso la sua parabola NBA su un palco, proprio come l’aveva iniziata, quando accanto a David Stern, nel draft 1990, dichiarò che “giocatori come me o Magic Johnson si vedono solo una volta ogni vent’anni“.
Dopo due stagioni a 7 e 9 punti di media, sembrava che Payton fosse un bidone e quella frase pareva destinata ad entrare nella letteratura spicciola della NBA, ma Gary è sempre stato un lavoratore per il quale arrendersi non era semplicemente accettabile: guardò giocare Stockton, scavò dentro sé stesso e i propri difetti trasformandosi in una delle point guard più complete della storia del gioco: due ori olimpici, un titolo NBA, nove volte All Star, nove volte miglior quintetto difensivo della Lega e nel 1996 miglior difensore NBA, con medie carriera di 16 punti e 6 assist.
Nelle parole di Gail Goodrich, non ci sono state guardie più complete di Gary Payton. Giocatore fisico, tiratore non eccezionale ma capace di portare a scuola chiunque in isolamento, punendo in post basso i playmaker più piccoli, o con il palleggio e la velocità quelli più alti.
I numeri però non bastano per descrivere un giocatore che è stato un personaggio di culto oltre che un cestista di livello assoluto.
La testa ciondolante, quel modo di palleggiare saltellando con le spalle a canestro, e la bocca, perennemente aperta, con l’aria sfrontata di chi cerca guai. GP è sempre stato così, e per capirlo bisogna raccontare la sua famiglia e le sue origini, prontamente onorate sul palco dell’istituzione intitolata a Naismith.
Ha ringraziato i genitori seduti in prima fila, la mamma Annie e il padre, Al, vestito di bianco e con un cappello Panama; proprio lui che girava per Oakland con una macchina targata Mr. Mean, il signor cattivo, giusto per essere chiari.
Payton ha ringraziato i fratelli e le sorelle, cresciuti con lui in una delle città più criminali d’America, capaci di danzare sul filo sottile che separa la durezza usata per proteggersi dall’essere semplicemente dei teppisti neri cresciuti con la glock infilata nei pantaloni.
Storie già sentite, simili a quelle di Isiah Thomas o di Scottie Pippen, storie di povertà e riscatto purtroppo molto meno frequenti di quelle di vite squallidamente sprecate.
Sua sorella maggiore Sharon era una che faceva a botte con i coetanei maschi e Gary sapeva che se mai avesse fatto un passo indietro in una rissa, poi se la sarebbe dovuta vedere con sua sorella: un mondo incomprensibile e lontanissimo sia visto dall’Italia che dai sobborghi delle classi agiate statunitensi.
“Se volete capire da dove arriva la mia personalità, fermate uno dei miei parenti nell’atrio, e vi diventerà subito molto chiaro!”
Bisogna cercare di capire Oakland e i suoi abitanti se si vuole cercare di capire Gary Payton, il suo essere duro, sbruffone, eppure allo stesso tempo leale e corretto.
La sua è una parabola di emancipazione, per cui sarà anche vero che, come recita l’adagio, “puoi togliere l’uomo dal ghetto ma non il ghetto dall’uomo”, ma ad ascoltare Payton omaggiare in John Stockton il giocatore più lontano al mondo dalla mentalità dei playground, e che si prende in giro senza darsi arie da fenomeno, viene da pensare che per Gary il ghetto non sia stato una condanna ma solo una prova da superare con il lavoro e il talento.
Ha ringraziato i figli e la ex moglie, Monique, per essere stata al suo finaco quando non era la persona che avrebbe dovuto essere. Le ha sussurrato “ti amerò sempre” con un filo di voce per la commozione, e quanto è lontano il Payton ganster che ad inizio carriera pareva destinato a durare poco, sempre pronto ad esplodere alla prima provocazione, a litigare con avversari e compagni!
Proprio Monique negli anni ha giocato un ruolo importante nel far emergere il meglio di Gary, trasformandolo in un family man che ha fatto di una città tranquilla come Seattle la sua casa, mettendo la sua rabbia al servizio del suo talento anziché il contrario.
Trash talker di livello superiore, nelle parole di Kurt Rambis: “Come gli squali hanno bisogno di nuotare continuamente per non soffocare, così Gary Payton per vivere ha bisogno di parlare continuamente“.
Dalla sua bocca sempre aperta sono uscite frasi assai variopinte, al punto che GP è al terzo posto nella classifica ogni epoca per falli tecnici (il secondo è Jerry Sloan, il primo non lo nominiamo nemmeno perché tanto lo conoscete benissimo!) e la nomea di giocatore problematico e ingestibile quando in realtà a perdere la testa erano gli avversari, non certo Gary.
Sicuramente non la persona più mansueta e accondiscendente del mondo, fece licenziare coach Westphal, si prese a botte con Vernon Maxwell e quando la franchigia passò di mano ne combinò di tutti i colori tra sospensioni e multe, al punto che la proprietà ritenne di scambiarlo per il più pacifico (ma meno carismatico) Ray Allen.
Payton non apprezzò affatto il passaggio di consegne tra Ackerley e Schultz, proprietario della catena Starbucks. Secondo il Guanto, la gestione del re del frappuccino è stata aziendalistica e impersonale, per nulla capace di comprendere la natura di una franchigia professionistica e l’importanza di un giocatore-franchigia.
Sarà una visione parziale, ma dopo la cessione Payton non ha più creato problemi in nessuna delle squadre per cui ha giocato, rivelandosi viceversa un utile collante oltre che un giocatore quasi indistruttibile (25 partite saltate in 17 anni di carriera). I Sonics viceversa non esistono neppure più, dopo anni di cattiva gestione made in Schultz, che riuscì ad inimicarsi anche il nucleo guidato da Ray Allen e Rashard Lewis, finendo poi per cedere la franchigia a Clay Bennett, che aveva intenzione di trasferirla in Oklahoma.
Soprannominato The Glove, il guanto (da suo cugino Glen, ha tenuto a sottolineare) per essere stato uno dei migliori difensori perimetrali dell’NBA moderna, se non addirittura il migliore in assoluto, Gary Payton aveva tutto: ossessionante sulla palla, abile nei raddoppi quasi quanto Pippen, dotato di mani velenosissime e del coraggio per buttarsi su ogni palla persa, per credere sempre nel recupero.
Nel 1996 riuscì nell’impresa di tenere Michael Jordan sulla terra durante le Finali, nonostante i centimetri di differenza.
I Bulls vinsero la serie ma Jordan segnò solo una volta 30 punti, chiudendo con 27 di media nella serie, con una Gara 4 da 23 punti, una Gara 5 da 26 e una Gara 6 da 22 con 5-19 dal campo, tanto che George Karl confessò il rimpianto di non aver usato da subito Payton su Jordan, compromettendo le chances di Seattle di battere Chicago.
Quei Sonics erano una squadra forte, difensivamente entusiasmante, ma Gary non era il leader che sarebbe diventato in seguito.
Negli anni successivi si trasformò in un attaccante completissimo, dotato di tiro, penetrazione, visione di gioco e passaggio. Nelle sue ultime cinque stagioni a Seattle ha collezionato otto assist di media, portando sempre in dote una ventina di punti.
Purtroppo per lui, gli anni migliori della sua franchigia erano già alle spalle: Shawn Kemp e la Lob City (quella originale, ha tenuto a rimarcare) erano ormai ricordi lontani e le sue stagioni migliori si sono svolte senza la luce dei riflettori della tv nazionale. Giocava da MVP in una squadra che non aveva più il roster per consentirgli di competere al massimo livello.
Ha salutato due prodotti di Oakland con cui è cresciuto, gli amici fraterni Brian Shaw e Jason Kidd (con cui ha continuato a giocare nella squadra estiva allestita da suo padre Al). Parlando di coach, ha ringraziato Craig Robinson, Ralph Miller, Jimmy Anderson, il coach dell’High School Fred Noel e gli allenatori ai Sonics, George Karl e Tim Grgurich in particolare.
Ha ringraziato Shawn Kemp, Nate McMillan e Pat Riley, con cui ha vinto il titolo nel 2006, ma ovviamente la parte del leone non potevano non farla i Seattle Supersonics, la squadra che lo scelse al numero due del draft ’90.
Ha ringraziato l’ex proprietario Chris Ackerley (presente in sala) e tutta la città di Seattle. Gary Payton ha rappresentato i Sonics per tredici anni guidandoli ad un record di 626-378 (.623) con una apparizione alle Finali e due Finali della Western Conference. Tutt’ora detiene il record per punti, assist, partite giocate e palle rubate di franchigia.
Payton non ha parlato della sua esperienza in maglia Bucks, durata solo 28 partite (disputate comunque tutte con professionalità inappuntabile, anche se sapeva bene che Milwaukee lo aveva voluto soltanto per il suo contratto in scadenza) e dell’anno dei Fab Four a Los Angeles, quando andò in crisi nel momento peggiore, alle Finali contro Chauncey Billups.
Scambiato dai Lakers, si ritrovò a Boston e sebbene non fosse contento giocò tutte le 77 partite con i Celtics con impegno.
L’anno successivo andò a Miami per cercare di vincere l’anello e si adeguò ad uno stipendio non da star oltre che ad uscire dalla panchina. Nei playoff disputò 34 minuti di media e arrivò il tanto sospirato Larry O’Brian Trophy, vinto non da protagonista assoluto come sarebbe stato ai tempi di Seattle, certo, ma pur sempre come elemento chiave e parte autentica di una squadra da titolo.
“La mia carriera è completa” ha detto Gary a Springfield; “Gary Payton continua, ma GP è nella Hall of Fame“.
Giurista in erba (qualsiasi cosa ciò significhi), seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, le due persone alle quali, cestisticamente parlando, sento di dovere quasi tutto;
una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
complimenti davvero per l’articolo. trasuda passione e mi ha fatto emozionare pur non essendo un fan del guanto. odiato troppo ai tempi dei lakers nel quali vedevo il gemello scemo in campo.