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Come sarebbero cambiate le Finals 2012 senza 3 partite casalinghe consecutive per gli Heat?

E’ di questi giorni la notizia del cambiamento epocale raccomandato direttamente dal Comitato per la Competizione della Lega che mirerebbe a ripristinare per le NBA finals il formato in vigore fino alla stagione 1984-85, ovvero quel 2-2-1-1-1 (inteso come alternanza di partite in casa e fuori) che del resto caratterizza tutte le altre serie di playoff.

Adesso la palla passa ai proprietari che nel mese di ottobre prenderanno una decisione circa la controversa questione. L’antica formula potrebbe tornare in auge già a partire dalle finali del prossimo giugno.

Manca ancora un mese all’opening night dell’imminente regular season, le bocce sono – almeno apparentemente – ancora ferme, eppure si inizia già ad annusare il profumo delle battaglie per l’argenteria.

La questione del formato delle finali è, come anticipato sopra, un tantino controversa. I pareri a sostegno dell’una e dell’altra parte si sprecano, non sempre accompagnati da profonde e doverose riflessioni a riguardo.

La prima considerazione da fare è però di carattere logistico-oggettivo. L’importante variazione al centro del dibattito attuale fu introdotta a metà degli anni ’80 per cercare di venire incontro alle esigenze squisitamente organizzative riguardanti gli spostamenti delle squadre da costa a costa. Più volte personalità del calibro di Auerbach si erano lamentate per la tremenda scomodità insita nell’affrontare i molti e ravvicinati – nel tempo – viaggi avvalendosi degli ordinari voli commerciali fra Boston e Los Angeles.

Chi di voi non ha presente i racconti dell’Avvocato Buffa sugli incontri ravvicinati del terzo tipo che si potevano fare sui voli di linea americani? Certo, se il buon Red avesse interpellato per esempio il povero Silas, impegnato in quegli anni a traghettare i San Diego Clippers nelle torbide acque della bassa Pacific Division, probabilmente avrebbe saputo che il coach ex-Celtics sarebbe venuto anche in macchina nel Massachussets pur di giocare le finali.

Ebbene la necessità che era alla base del provvedimento preso all’alba dell’era Stern oggi non sussiste. Ogni franchigia NBA infatti si è dotata di rapidi e comodissimi charter privati per mezzo dei quali scorrazza i giocatori dall’Atlantico al Pacifico. Basta adocchiare qualche filmato sul web per rendersi conto del comfort di certi ambienti, persino superiore a quello delle abitazioni di alcuni di noi.

Tuttavia, nonostante le evidenze, certi aspetti, seppure siano decisivi – in quanto implicano necessariamente una certa capacità di adattamento ad uno stile di vita ben preciso – ed al momento attuale, in cui si è attenti anche al minimo dettaglio, incidano sempre di più sull’esito delle stagioni, restano pur sempre laterali rispetto alla pallacanestro giocata e, in quanto tali, non ci interessano più di tanto. Ciò che mi preme davvero è parlare di basket nudo e crudo.

Ed allora ci rendiamo conto di come i cavalli di battaglia dei propugnatori della restaurazione dell’antico ordine (quello precedente alla venuta del salvatore Michael Jordan – che, ironia della sorte, coincide proprio con la stagione della modifica della formula, 1984-85) siano diversi e tutti amabilmente argomentabili.

Fra i più gettonati si colloca sicuramente la lamentela sul presunto favoritismo che si eserciterebbe nei confronti della squadra con il seed più basso, quella quindi meno meritevole di concessioni sulla carta. A una prima analisi non si può certo dar torto a chi batte su questo punto.

L’attuale formato non è in grado di garantire alla squadra che ha concluso col maggior numero di vittorie in stagione regolare la possibilità di giocarsi l’atto finale sempre e comunque beneficiando del vantaggio del campo. Di certo le prime due partite sono casalinghe ed hanno il loro peso ma, qualora la serie si chiuda in 5 partite, la compagine meglio classificata avrà infatti giocato soltanto due volte fra le mura amiche rispetto alle tre in cui invece si sarà esibita in trasferta.

Qualcuno potrebbe dire: “Amico mio, se ne perdi una in casa e tutte le altre fuori vuol dire che hai meritato la sconfitta!” Vero anche questo. Però a volte le partite si giocano sul filo del rasoio e un singolo possesso può fare la differenza.

Il beneficio del fattore campo è pensato proprio per garantire un vantaggio – lo dice la parola stessa – a chi per tutto l’anno ha sudato e faticato ogni singola sera per conquistare quella vittoria in più che gli consentisse di raggiungere una posizione migliore nel ranking.

Con questa singolare formula, la squadra col seed più alto si trova nella tutt’altro che piacevole posizione di non potersi permettere di sbagliarne nemmeno una delle prime due gare. Se ne facciamo un fatto di numeri è successo 3 volte (su 14) nella storia che la squadra di casa che aveva perso gara 1 o 2 sia stata poi vittima di un cappotto nelle successive 3 in trasferta: 2004: Lakers-Pistons 1-4; 2006: Mavs-Heat 2-4; 2012: Thunder-Heat 1-4.

Se nel primo caso si è trattato di organico – quello della compagine che ha poi vinto l’anello – dimostratosi in tutto e per tutto superiore all’avversaria, negli altri due semplicemente ha vinto chi ha interpretato meglio la finale. Quindi, in entrambi i casi, giusto così.

Qualcuno potrebbe argomentare che la formula 2-3-2 sia più avvincente, renda le finali più equilibrate. Non sembra esattamente così. In 29 serie di finale solamente in 5 occasioni si è arrivati a gara 7, mentre la squadra senza il vantaggio del campo ha vinto la serie soltanto 8 volte.

Se prendiamo le finals in cui ci si è trovati sull’1-1 dopo i primi due atti, vediamo come lo score per quanto riguarda le vittorie finali sia di 9-5 per la squadra di casa. Sono solo dati. Di per sè non vogliono dire niente. Ma quest’ultimo in particolare denuncia un maggiore equilibrio rispetto ai precedenti e soprattutto riprende il discorso di cui sopra sulla necessità di non fallire le prime due per la compagine meglio classificata.

Fra quelle che invece hanno ugualmente raggiunto il titolo (1988 Lakers, 1994 Houston, 2010 Lakers, 2013 Miami) pur essendo cadute in una delle due gare casalinghe iniziali, in 4 delle 9 occasioni in cui è capitato l’avversaria di turno ha portato a casa l’intero bottino per ben due volte all’interno del trittico di gare centrale. Tendenza questa che controbatte immediatamente la precedente intuizione mostrando come in realtà niente sia mai del tutto compromesso, nonostante una sconfitta in casa e un bilancio negativo in trasferta.

Del resto sono 15 (stavolta su 25) le volte in cui la squadra “svantaggiata” ha vinto almeno 2 delle 3 partite casalinghe del suddetto trittico centrale (6 volte è uscita l’accoppiata gara 3-gara 5, 5 volte gara 4-gara 5). Di queste 15 occasioni soltanto 4 serie sono state poi vinte da tale squadra. Solo i Chicago Bulls del 1992-93, partendo sfavoriti (da tabellone) contro i Suns, sono riusciti ad aggiudicarsi il titolo vincendo soltanto una partita in casa in tutta la serie di finale (gara 4).

Ad onor del vero, è utile ricordare come quella del ’93 sia stata una finale.. come dire.. irripetibile, come spesso succedeva quando in campo c’era His Airness. Chicago vinse gara 1 e 2 a Phoenix ma perse 2 delle successive 3 nella città del vento, ritornando in Arizona sul 3-2 e vincendo il titolo in gara 6, in trasferta. Dove siete adesso sostenitori dell’uno o dell’altro formato??

Ma il conto delle gare decisive per il titolo vinte lontano dall’arena di casa è talmente lungo che è quasi tedioso ricordarlo.

2005 Spurs-Pistons. 2 W Spurs a San Antonio, 2 W Pistons a Mo-town. Dopodichè Spurs corsari a Detroit in gara 5 e Pistoni a farsi beffe degli spettatori dell’AT&T Center nell’episodio numero 6.

1998: game, set & match per i Bulls che vincono in casa dei mormoni la sesta e decisiva gara con il celebre tiro del sig. Michael Jeffrey Jordan. Sempre lui.

2006 Miami vince il titolo a Dallas in gara 6.

2011 gli Heat ricambiano il favore, offrendo la propria casa, l’America Airlines Arena, come sfondo dei festeggiamenti per il titolo dei Mavs di Nowitzki, sempre in gara 6.

Se poi proprio vogliamo esagerare, possiamo ripescare le serie finali del 1990 in cui i Pistons, dopo essere stati raggiunti sull’1-1, volarono a Portland per vincere tutte le successive 3 partite, e quelle dell’anno successivo in cui i Bulls, sorpresi in gara 1 dai Lakers, vinsero la 2 in casa ed andarono in California a dettare legge, per il primo titolo di quello che fu presto rinominato – e con buona ragione – Gesù in scarpe da basket.

Si arriva così alla finale del 2001 in cui, dopo un commovente Iverson padrone di gara 1, non appena la serie si sposta a Philadelphia i Lakers non fanno più vedere boccino ai modesti avversari.

Ho sciorinato questa carrellata di numeri per dire cosa? Probabilmente niente. Anzi un beneamato niente è proprio ciò che si evince da tale riflessione.

Cosa conta quante gare di fila uno giochi in casa o in trasferta, quando si parla di basket a certi livelli? Si parla di un gioco cioè in cui un semplice centimetro è in grado di fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta e i cui maggiori interpreti fremono per scendere in campo su palcoscenici il più possibile infuocati per poter poi mostrare orgogliosi alla prima fila la scritta sulla maglia mentre tornano in difesa dopo una tripla segnata in faccia all’idolo di casa.

E’ un’equazione in cui entrano in gioco fin troppe variabili perchè sia possibile isolarne una soltanto e valutarla in modo assoluto.

Discorso a parte va fatto invece per Sua Maestà, MJ. Per lui le stupide regole di cui noi poveri mortali ci equipaggiamo per navigare a vista e non sconvolgere più di tanto l’essenza delle cose non valgono. Lui è sempre andato oltre.

Avreste potuto anche decidere di giocare le finali nel cortile di casa di Malone oppure nel salotto di Drexler o anche sott’acqua. Avrebbe vinto lui ugualmente.

 

2 thoughts on “Cambia il formato delle NBA Finals?

  1. secondo me la formula della finale 2-2-1-1-1 è più giusta, c’è un piccolo vantaggio per chi ha vinto più gare in regular season

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