Lunedì 7 ottobre, quattro e trenta del mattino: molti ancora dormono, qualcuno inizia e qualcun altro finisce la propria giornata di lavoro.

Io sono in piedi per inseguire un sogno sotto forma di un viaggio a Manchester, dove da inviato per Play.it USA avrò il privilegio di seguire e raccontare la due giorni di preseason Nba che vedrà protagonisti gli Oklahoma City Thunder e i Philadelphia 76ers.

Tra un autobus delle cinque che pare il raduno di una variegata setta, con gli avventori che per un motivo o per un altro si conoscono tutti e scambiano come (presumo) ogni mattina pensieri, parole e turbe giornaliere, e un intercity vecchia maniera, arrivo a Roma per la prima tappa del mio itinerario. Un paio di brividi coi trasporti dell’Urbe, con orari sballati che mi impongono di correre e mi costano la quasi multa di un controllore, riesco a raggiungere l’aeroporto Ciampino usufruendo dei servigi di un taxi non proprio economico (niente a che vedere col trattamento di favore che mi avrebbe riservato il mio amico Nik).

Adesso posso dire ufficialmente di essere partito, sorvolando la Manica e arrivando in terra d’Albione (o d’Hermione, alias Emma Watson, se preferite). La navetta che mi porta in città mi fa dimenticare il ritardo dell’aereo: un autobus spaziale, con sedili in pelle comodi come neanche la poltrona di casa. Il tragitto per arrivare in centro è breve, ma gli sfuggenti dintorni di Manchester sembrano il classico stereotipo inglese: prati perfetti e di un verde più che mai British che incorniciano villette a schiera che paiono fatte con lo stampino.

L’arrivo in città non è dei migliori: tra un giro di troppo per cercare la linea del tram più vicina e l’introvabile entrata secondaria della Manchester Arena (sentiti ringraziamenti ad almeno quattro membri del personale della stazione di Victoria, che sono riusciti nell’impresa di fornirmi ognuno un’indicazione diversa) il mio ritardo da corposo diventa catastrofico, il che mi impedisce di assistere alla sessione di allenamento con annesse interviste dei Sixers. Poco male, perché almeno arrivo appena in tempo per l’inizio di quella dei Thunder.

Si parte con la media availability, una mezz’ora scarsa di tempo a disposizione prima dell’inizio dell’allenamento. Mi avvicino quasi istintivamente a Thabo Sefolosha, forse per cercare un pezzo d’Italia in lui che nel nostro paese si è lanciato (con la casacca dell’Angelico Biella) prima di varcare l’oceano e affermarsi tra i pro.

Thabo è gentilissimo, e risponde alle mie due domande (fatte in italiano, of course): sorride quando ripensa ai tempi di Biella, che ricorda come “Un’esperienza magnifica dal punto di vista cestistico ma soprattutto sotto il profilo umano”, ed è concentrato solo su una stagione che vuole vivere da protagonista. Le trattative per il rinnovo del contratto per adesso possono aspettare: “Voglio pensare soltanto a questa stagione, a migliorarmi mettendomi a disposizione dei miei compagni e facendomi trovare pronto, sperando di poter fare tanta strada nei playoff”.

Il Divino Durant è preso d’assalto, e conservo le mie poche cartucce a disposizione in attesa di un momento più propizio (arriverà, non disperate…). Scelgo allora di puntare su quello che, al netto dell’assente Westbrook, è il secondo violino dei Thunder: Serge Ibaka.

In zona cesarini, quando il lungo ispano-congolese è richiesto sul parquet, riesco a farmi strada e a porgli la mia domanda. Gli chiedo se ha lavorato in modo particolare per quella che potrebbe essere la stagione della consacrazione, e lui mi risponde così: “Ho seguito lo stesso programma che mi ha permesso di migliorare di anno in anno, vale a dire lavoro duro e tanta concentrazione sull’obiettivo, che è quello di lottare per vincere”.

M’imbatto quasi per caso in Reggie Jackson, che a sua volta sta per finire il proprio giro di interviste. Mi viene in mente una domanda che probabilmente in pochi gli hanno fatto e mi butto: visti i natali italiani (a Pordenone per la precisione, dove papà era in servizio come militare in una base americana) che ne pensi del Bel Paese? Hai mai pensato di poter vestire un giorno la maglia azzurra?

Reggie sorride, come quasi sempre d’altronde, perché vedendolo allenarsi si ha l’impressione di avere a che fare con un bambino a Disneyland, e ammicca: “Purtroppo non sono mai tornato in Italia, ma amo l’Europa e questo viaggio me l’ha fatta apprezzare ancora di più. La Nazionale è un discorso che potrà essere approfondito: adesso penso a lavorare e migliorare per questa stagione molto importante per me e i per i compagni; ma se in futuro dovesse arrivare una chiamata, perché non pensarci su?”.

L’allenamento dei Thunder aperto alla stampa è solo un antipasto dell’intera sessione: quando s’inizia a darci davvero dentro con schemi e partitelle, la security ci invita gentilmente a sistemarci nella media room all’esterno del terreno di gioco. Da quel poco che ci è concesso di vedere, però, catturo qualche rapida impressione: Kevin Durant ha un che di felino, si aggira per il campo con movimenti felpati e controllati.

Non esplode, non forza, non spreca energie: sembra quasi voler nascondere la sua presenza. Non c’è bisogno di prendersi le luci della ribalta, non oggi quando è impegnato nel percorso giornaliero che lo vede nei panni della guida silenziosa per i suoi compagni.

La giornata, però, non finisce qui: la partita organizzata da Special Olympics chiude il programma del lunedì, ed è un evento davvero molto divertente e significativo. Le squadre sono composte dai ragazzi della fondazione, incredibili per la passione l’impegno che mettono sul campo dando una lezione di vita a chi, come spesso accade, prende i doni della vita come qualcosa di scontato.

Al loro fianco campioni del passato e del presente: la squadra bianca è infatti guidata dal padrone di casa John Amaechi e da Peja Stojakovic, coadiuvati da uno staff d’eccezione composto da Durant, Fisher e Collison; i rossi rispondono con Vlade Divac e Dikembe Mutombo, ed è bellissimo vedere la partecipazione totale di questi grandi nomi che si mettono al servizio di questi ragazzi straordinari, regalando loro un pomeriggio di festa.

Spicca su tutti il sempre istrionico Mutombo, con ogni giocata che diventa buona per girarsi verso le tribune (con uno sguardo privilegiato verso il pubblico femminile) e regalare una battuta con la sua voce caratteristica e la sua risata contagiosa.

Nota a margine: è partita vera, risolta da una tripla alla scadere di un insospettato… Hit me on my Peja! Una foto insieme all’uomo dell’ultimo tiro e al suo compagno di mille battaglie con la nazionale serba non poteva mancare…

In mezzo a due giganti, in tutti i sensi...

In mezzo a due giganti, in tutti i sensi…

Un bel sonno ristoratore è quello che ci vuole dopo una giornata a dir poco intensa, e con le batterie di nuovo cariche si riparte immergendosi nel Day 2 mancuniano.

La prima parte della giornata mi vede nei panni del turista: come prima tappa, noblesse oblige, è prevista la visita a uno dei simboli della città, l’Old Trafford, più che uno stadio una cattedrale pagana.

Si capisce subito perché lo chiamano “Teatro dei Sogni”: l’atmosfera è magica, si respira la tradizione di una squadra che ha fatto la storia dello sport.

L’organizzazione va di pari passo al blasone del club, con una guida brillante che ci accompagna nella magia della casa del Manchester United.

Old Trafford Stadium, "Teatro dei Sogni" non per caso.

Old Trafford Stadium, “Teatro dei Sogni” non per caso.

Circa tre ore di visita e una maglia di Eric Cantona dopo mi dirigo verso la zona universitaria: mi colpisce il fatto che, in una giornata di sole ma fresca quantomeno per gli standard mediterranei, i locali viaggino spediti vestiti solo di t-shirt e canotte, con i più arditi che azzardano anche il pantalone corto. In confronto, col mio giubbottino leggero, mi sento un eschimese; ma tant’è, e mentre chiudo la zip fin sotto al mento cerco di abituarmi ai miei compagni di camminata sbracciati.

Passeggiando dal campus universitario verso il centro della città penso che Manchester sia lontana anni luce dagli stereotipi che, almeno personalmente, sono sempre stato propenso ad associarle: mi aspettavo una città grigia e monotona e invece mi trovo di fronte, aiutato anche da una giornata bella e soleggiata, una comunità giovane, viva e aperta al rinnovamento.

L’immagine del buio distretto industriale sparisce dalla mia mente, lasciando il posto a quella di una città dinamica e piena di vitalità.

La postazione di Play.it USA in tribuna stampa

La postazione di Play.it USA in tribuna stampa.

La giornata da turista sta per giungere al termine, perché tra un po’ si torna al “dovere”: cena (se così si può definire la consumazione del menù di un fast food intorno alle 17 ora locale) veloce e poi via verso il palazzetto, dove due ore prima della palla a due sono già nella mia postazione mentre i Thunder sono in campo per lo shootaround prepartita.

Mi accorgo però di avere un problema, senza però la possibilità di chiamare Houston: la batteria del computer è quasi scarica, e sono sprovvisto di un adattatore per le simpatiche prese di corrente britanniche, tra le piaghe della nazione insieme alla guida a destra e all’assenza di bidet.

Fortunatamente, e inaspettatamente, mi viene in soccorso una foto con Mutombo. Avete capito bene: dopo essermi fatto largo tra le femmes fatales (passione inestinguibile quella del buon Dikembe) che lo circondano e aver ricevuto il permesso per l’ambito scatto, un ragazzo americano si propone come fotografo occasionale.

Not in our house!

Not in our house!

Dopo aver ottenuto uno dei miei obiettivi della due giorni, ovvero posare con Mutombo che mima con il dito il suo marchio di fabbrica “not in my house”, ricambio il favore al gentile collega e stringo amicizia; incredibilmente dispone dell’adattatore che fa al caso mio, e con gentilezza e spirito di solidarietà mi permetterà di usarlo addirittura fino a metà del terzo quarto.

Dopo aver usufruito delle comodità e delle calorie del catering della media room mi apposto nella zona di entrata e uscita dei giocatori, riuscendo a scambiare il cinque alto con Thaddeus Young, Perkins e soprattutto con my man Carter-Williams, cavallo di battaglia del mio prossimo fantasy.

Manca davvero poco all’inizio della partita, e adesso che le squadre stanno ultimando il riscaldamento l’atmosfera è davvero straordinaria.

Si alza la palla a due che dà il via a una gara che si rivelerà equilibrata e combattuta, per la gioia di tutti gli appassionati presenti.

Nel primo quarto Ibaka tiene un clinic di quella che potrà essere la sua stagione: stoppate come se non ci fosse un domani e grandi movimenti in attacco, tra jumper presi e mandati a segno con fiducia e la chicca di un turnaround da leccarsi i baffi.

Per i Sixers risponde con personalità il rookie Carter-Williams, che fa intravedere un potenziale che coach Brown sarà chiamato a far fruttare nel migliore dei modi.

Il secondo quarto inizia a essere terreno di caccia per Durant, ma il 35 di Okc oggi si presenta in una veste nuova: è lui infatti a governare le redini della squadra, agendo da playmaker e creando una quantità imbarazzante di ottimi tiri per i compagni.

I Thunder sembrano poterla chiudere, ma Philaldelphia prima pareggia ancora con MCW, poi va addirittura al sorpasso con le triple di Turner e Wroten. 51-48 Sixers all’intervallo, con il pubblico (arricchito da un parterre de rois composto tra gli altri da Rio Ferdinand, Patrick Vieira e Andy Cole) che apprezza e sembra non vedere l’ora che qualcuno rubi palla per presentarsi solo alla schiacciata in campo aperto.

Nel terzo periodo Oklahoma pare mettere in ghiaccio la partita, con un Durant più che mai divino che lascia andare piume con la sua mano destra e flirta addirittura con la tripla doppia quasi senza accorgersene, con la semplicità dei campioni (chiuderà con 21 punti, 12 assist e 8 rimbalzi).

Ma Phila non è doma, e con un inizio di quarto periodo alla garibaldina riacciuffa la parità a quota 85 grazie ai canestri di Wyatt e di un buon Wroten. Coach Brooks tiene KD a sedere e lascia a Jackson e Ibaka il compito di gestire il finale e di condurre in proto la gara: missione compiuta per il duo di Okc, con il play classe 1990 che è decisivo e glaciale nel chiudere i conti dalla lunetta negli ultimi possessi; finisce 103-99 per i Thunder.

Philadelphia in lunetta nel quarto periodo. Alla fine la spunteranno i Thunder al termine di una partita bella e combattuta.

Philadelphia in lunetta nel quarto periodo. Alla fine la spunteranno i Thunder al termine di una partita bella e combattuta.

Ma la festa non è finita: manca la ciliegina sulla torta, una gustosa guarnizione che arriverà di lì a poco. In conferenza stampa, dopo i due coach e Evan Turner, l’uomo più atteso è sempre lui: Kevin Durant.

È la mia occasione, e non voglio perderla per niente al mondo: alzo la mano praticamente quando KD varca la soglia, e al penultimo tentativo vengo finalmente accontentato.

Il microfono si avvicina e finalmente potrò chiedere a viva voce una domanda a uno dei grandissimi della pallacanestro di oggi.

Gli chiedo del suo modello, quel Tim Duncan al quale ha sempre guardato con grande ammirazione, e cosa fa per seguire le sue orme e essere un esempio e un’ispirazione per i compagni.

Kevin risponde così: “Per essere un esempio sono tante le cose da fare: devi farti sentire in campo, far capire l’importanza del duro lavoro arrivando per primo e andando via per ultimo dagli allenamenti. Oltre a questo, parlo spesso ai miei compagni più giovani delle mie esperienze passate: sono stato anch’io una matricola, so cosa si prova a “attraversare il fuoco” per la prima volta. Quindi oltre all’esempio sul campo cerco di dare consigli ad ognuno di loro”.

Kevin Durant nella conferenza post-partita, poco prima di rispondere alla mia domanda.

Kevin Durant nella conferenza post-partita, poco prima di rispondere alla mia domanda.

Quando KD smette di parlare mi sento come se potessi toccare il soffitto con la testa. Adrenalina, soddisfazione e felicità si fondono in un unicum che mi fa dire tra me e me: “Bella prova, ce l’hai fatta”.

Si spengono le luci alla Manchester Arena, e anche per me arriva l’ora di mettermi in cammino sulla via del ritorno.

La chiacchierata con un simpatico mancuniano, spaziando dal calcio alle bellezze dell’Italia e dalla campagna inglese ai terremoti di San Francisco, è la degna conclusione di una due giorni fantastica: in solitaria e un pò all’avventura, da cittadino del mondo al centro del mondo, quello magico della Nba.

L’arrivo in aeroporto con largo anticipo serve a riordinare le idee, o meglio a far scorrere liberamente i pensieri per gustarli di nuovo e trovarli ancor più dolci.

Si chiude una pagina unica, affascinante, spero non irripetibile. Inseguite i vostri sogni, gente: quando si avverano, la gioia e la libidine sono impareggiabili.

4 thoughts on “Manchester, KD e un tuffo nella Nba: 2 giorni vissuti tra sogno e avventura

  1. Che dire poesia pura…. Neanche la Rowling avrebbe scritto così bene questo pezzo…10 e lode!!

  2. Bellissimo pezzo, complimenti davvero! Spero di realizzare anche io il tuo stesso sogno, un giorno :)

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