Italiani e neri, i De Blasio sono la first family di New York

Italiani e neri, i De Blasio sono la first family di New York

La città di New York è sempre stata una fonte inesauribile di storie. Per me è davvero “the greatest city in the world”, come da annuncio ogni sera nello show di Dave Letterman.

Roma e Napoli sono le città che mi stanno più a cuore, leggi anche orgoglio italiano, ma nel contesto americano nessuna batte NY.

Se c’è una cosa infatti con cui sono in disaccordo con Federico Buffa è il suo amore per Los Angeles e il conseguente primato di città più desiderabile e affascinante.

Non sono mai stato in California, non posso giudicare, ma per tutta una serie di ragioni il sogno è di casa tra le strade della “Big Apple”.

Un sogno precedente al mio primo passo su quell’asfalto che era già nei film, nelle immagini, nei miei pensieri come quelli di tutti noi che ancora oggi “pensiamo sempre all’America”.

Il basket è la colonna di questa bellissima casa. Colgo un’occasione particolare per condividere quattro storie che sono in fondo quattro opinioni personali.

Ogni storia ha come sfondo questa città magnifica, più grande di ogni racconto. L’occasione è l’elezione a sindaco di Bill de Blasio, avvenuta martedì scorso con percentuale di vittoria imbarazzante (73,7 %) per il suo avversario più del suo nome, Lhota, chi abita a Napoli sa bene cosa significhi.

Io ho già cambiato immagine di sfondo per il mio desktop a scopo celebrativo. Ora c’è il bel quadretto familiare sulle classiche scalette “NY style” della propria abitazione (nello specifico a Park Slope, Brooklyn) col sindaco sorridente, sua moglie Chirlane e i suoi due figli Chiara e Dante.

Quattro capitoli sul basket per ognuno dei componenti della “first family”. Io ne sono rimasto commosso, oltre che orgoglioso.

Da Brooklyn, NY le relazioni afroamericani - italiani si elevano ad arte con Chris Rock e Spike Lee

Da Brooklyn, NY le relazioni afroamericani – italiani si elevano ad arte con Chris Rock e Spike Lee

Dopo Fiorello La Guardia (padre di Cerignola, Foggia, madre di Trieste), Vincent R. Impellitteri (Isnello, Palermo) e Rudolph Giuliani (nonni di Montecatini, Pistoia) è il quarto italiano sindaco della città più importante del mondo.

C’è di più, almeno per quanto mi riguarda, che poi, a ben vedere, è la contentezza di ogni appassionato di basket che deve agli afroamericani la grandezza del gioco.

Il nostro simpatico sindaco, i cui nonni erano di Sant’Agata de’ Goti, Benevento e Grassano, Matera, ha sposato una donna nera e da lei ha avuto due figli ai quali ha dato dei bellissimi nomi italiani dal respiro classico.

Alla ragazza Chiara, come la santa del monastero a Spaccanapoli, al maschietto con in testa una chioma afro da far invidia ai figuranti dei film Blaxploitation anni ’70 un bel Dante di poetica memoria.

I rapporti tra italiani e neri d’America sono stati la palla a due iniziale per la mia passione per il cinema, a partire dal capolavoro di Spike Lee Do the right thing, che non a caso è una storia di Brooklyn, New York, non lontano da casa de Blasio ma in piena Bed Stuy dal cuore nero.

Non posso non esserne divertito se non emozionato. Italiani e afroamericani a New York, un sindaco con la propria famiglia, Chiara bellissima fanciulla che in “School Daze” sarebbe stata tra le più carine della squadra delle “light skin” e piccolo Doctor J ai tempi della ABA che porta il nome del nostro più grande poeta.

Da qui l’occasione, come dicevo. Complimenti a Bill, mantenga NY ai vertici dell’America e del mondo. Dal loro assist adesso parliamo di basket.

 

Dal casello autostradale a Brooklyn senza sosta, Jason Kidd è pronto per smentire tutti i critici

Dal casello autostradale a Brooklyn senza sosta, Jason Kidd è pronto per smentire tutti i critici

No kidding

La scelta di Jason Kidd come capo allenatore dei Brooklyn Nets è stata sbagliata e secondo me anche ingiusta. Vedremo cosa dirà il campo, ovvio, ma non penso sia un progetto destinato ad avere successo.

KG e Paul Pierce come ai bei tempi per un titolo presto e subito, ma con più anni sulle spalle, soprattutto KG, e motivazioni diverse, se è vero che in biancoverde si andava tutti insieme per il primo anello, Ray Allen compreso, dopo una carriera da star di squadre perdenti.

Hanno costruito un roster di grande talento, non c’è dubbio, ma sono nuovi come chimica, un’operazione classica alla Real Madrid con tanti soldi e un’incognita gigante su come farli giocare insieme.

Ciò detto, l’allenatore ha ancora più importanza in questo contesto rispetto a qualsiasi altra situazione in giro per la lega. Jason Kidd head coach non mi sta bene, a maggior ragione dunque, per diversi motivi. Primo, sono contrario alla figura di player coach nella NBA.

E’ una moda che si è diffusa rapidamente e che ha avuto anche un buon successo (vedi Doc Rivers proprio con i Celtics dei Big Three di cui sopra) ma filosoficamente sono contrario alla mescolanza dei ruoli.

In realtà il coach con esperienza da giocatore NBA ci è sempre stato, obietterete, verissimo, ma mai come oggi ne siamo investiti e sembra sia ormai un trend incontrovertibile.

Un giocatore di successo nella NBA non è assolutamente detto che lo diventi nella stessa lega anche come allenatore. Così non si premia chi invece allenatore lo è per professione, che studia il gioco da un’angolazione diversa.

Un’angolazione per me privilegiata. Giocare e allenare sono due cose diverse, tutti gli allenatori nel loro piccolo o grande sono stati giocatori (anche Stan Van Gundy e persino Rick Majerus), chi solo a livello collegiale chi da professionista, chi anche meno da liceale, chi anche di più da star NBA (Larry Bird per esempio).

Il discorso è che un allenatore studia il gioco, fa ricerca, non tiene solo insieme il gruppo, che poi è la dote per la quale molti player coach sono assunti.

Il discorso è complesso ma passi pure per il player coach, ci sono stati esempi vincenti (e uno dei più grandi, Phil Jackson, giocava nei mitici Knicks due volte campioni nel 1970 e nel 1973) Jason Kidd però non ha esperienza, punto due.

E’ un delitto chiamarlo a scapito di tanti coach preparati, anche giovani, passi anche che ha investito suoi soldi nella società del miliardario russo e anche che sia stato tra i migliori della storia della franchigia, non è giusto però che abbia come corsia preferenziale dei meriti da giocatore che in realtà non sono assolutamente consequenziali per un sicuro successo in panchina.

Punti di vista. Ero scettico su Mark Jackson e sono stato smentito con un’ottima prima annata con i Warrios, sono comunque convinto che alla lunga, tranne formidabili eccezioni, il player coach sia destinato a fallire. Kidd in primis.

Il campione uscente è un bidone filippino che era addetto allo scouting video, il suo avversario è il grande Popovich, un intellettuale, altro che player coach, Bulls e Pacers vanno con altri due giovani studenti del gioco, delle 4 migliori dello scorso anno (Miami, Indiana, Memphis e San Antonio) solo Lionel Hollins, peraltro oggi a spasso, ha giocato nella NBA.

Chi è avverso alla mia tesi può portare gli esempi vincenti opposti, ma Kidd è stato troppo un grande per esserlo parimenti da allenatore, come Larry Bird (anche più grande di Kidd) che però si è fermato alle Finals 2000 in un pugno di stagioni. Grande giocatore e grande coach ai massimi livelli, ma eccezione che conferma la regola.

Da questo punto di vista bisogna tornare ai tempi in cui c’erano i veri player coach, Bill Russell e Buddy Jeannette (Bullets ’50) vinsero infatti alternandosi insieme tra campo e panchina, come Woody Allen è insieme attore protagonista e regista.

Al di là dei numeri resta che Kidd è passato direttamente dal backcourt alla panchina, senza aver fatto nessuna gavetta. Gli altri per lo meno sono stati nella dirigenza o dietro ad un microfono. Per è inquietante, mi posso sbagliare, ma la preferenza resta.

Fossi un GM NBA non mi farei mai abbindolare dal campione, vorrei sempre un allenatore che sa come si lavora, questione oggi old school ma non del tutto tramontata nonostante la moda dilagante.

 

Tipica espressione di Andrea, peccato che adesso da NY lo vede tutto il mondo

Tipica espressione di Andrea, peccato che adesso da NY lo vede tutto il mondo

Everybody hates Andrea

Non vedo molte serie TV, tranne i leggendari Simpson, ma tra le poche mi è rimasta nel cuore c’è Everybody hates Chris. Se avete letto l’introduzione il motivo lo saprete già ma mi fa troppo piacere ribadire il concetto.

Siamo nello stesso quartiere di Spike che porta le pizze per conto di Sal, il protagonista è il Chris Rock bambino, va a scuola alla Corleone High School, per dire degli americani di come abbiano una certa immagine dell’Italia, evocando addirittura, per colpa del Padrino, il paese di Riina e Provenzano dal quale è partita la fiammata più violenta di Cosa Nostra contro lo Stato.

Il suo migliore amico è un bianco, italiano, e quindi i suoi rapporti con l’altro mondo al di fuori del suo ghetto sono di nuovo, come simboleggiato dalla bandiera italiana a fianco di quella americana nei corridori del liceo, incarnati dagli italiani. Chris Rock come Spike Lee.

I rapporti continuano e così la mia soddisfazione, caro Bill santagatese. Quest’anno però un dramma. Il peggiore esponente del nostro basket in America passa dalla tundra oltreconfine dove tutto sommato non faceva danni perché non importava a nessuno, Steve Francis fu un eroe a rendere esplicito il suo schifo alla sola idea di andarci da rookie, fino al cuore del mondo.

Ovvero, Andrea Bargnani ai New York Knicks. No, che male ho fatto per meritarmi questo ? Ovunque ma non a New York, vi prego.

Non è degno di giocare con quella maglia, in quella città, davanti alla comunità italiana più importante d’America (siamo l’8,2 %, della popolazione, i più numerosi tra i bianchi non ispanici), con gli occhi del mondo addosso.

Non mi è mai piaciuto e mai mi sarà lieto. Sopravvalutato, è stato prima scelta assoluta solo perché è capitato in un draft poverissimo che finora ha prodotto solo tre All Star, LaMarcus Aldridge, lo sfortunato Brandon Roy e Rajon Rondo chiamato alla 21.

Dei 4 nostri ragazzi che oggi popolano la NBA è di gran lunga il peggiore, per me e per tanti altri, compresi tanti commentatori americani.

Dovremmo escludere ad essere onesti Datome, appena arrivato a Detroit. E’ esploso a sorpresa a Roma e l’ha portata fino alla finale scudetto, non ci si poteva aspettare un così grande miglioramento e la NBA gli è da premio meritato.

Non penso che possa rubare minuti consistenti quest’anno né in futuro di essere troppo incisivo ma la sua carriera non assomiglierà a quelle pionieristiche di Stefano Rusconi e Vincenzino Esposito, può dare il suo contributo.

Ah, Vincenzo, a proposito di New York, quello che si scusava per la sua non difesa dicendo che “i Maradona non difendono”, ebbe la sua migliore serata della sua vita americana proprio al MSG, 18 punti in 30 minuti, stagione ’96 da paisà che oggi suona come l’Internet di quei pochi eletti prima di Twitter, di Wikipedia e di Youtube.

Belinelli è un appassionato del gioco, simpatica la sua conversazione con Buffa in cui candidamente ammette che non sapeva niente dell’America la prima volta che ci è stato causa draft, sta avendo una buona carriera, onestamente il massimo in quel contesto, comunque un giocatore e un ragazzo a cui va il mio affetto.

Gallinari è il migliore, ha le più concrete possibilità di emergere sul serio, purtroppo la sua ancor breve carriera è già stata falcidiata da troppi infortuni ma ha fatto onore a New York ai suoi tempi al contrario, e qui torniamo al nostro tema, di Bargnani.

Ha goduto di rendita grazie a Nowitzki, perchè all’epoca molti GM erano pazzi per il lungo tiratore, ma va da sé che il tedesco è un’altra cosa.

E’ fondamentalmente una guardia di 2 e 10, anche poco di più, è terribilmente monodimensionale. Sa fare una sola cosa, cioè tirare da fuori e nemmeno troppo bene (una sola volta in carriera sul 40% da tre) ma a quell’altezza non può certo giocare da “2” cosicché sotto canestro si espone al ridicolo, non prende un rimbalzo nemmeno a pregarlo (massimo 6,2 a gara), non lotta, non sgomita, non stoppa, non intimidisce nessuno.

Non smentisce la tesi americana che i lunghi europei siano dei mollaccioni, a cui non sfugge nemmeno Pau Gasol ma anche qui lasciamo stare, pure il catalano è tutta un’altra cosa.

Ha movimenti meccanici, da scolaretto che sa fare solo un compitino, è prevedibile, scontatissimo, senza sorprese, in più va sempre in giro con quella faccia da pesce lesso, con la bocca aperta, noi diciamo proprio “sei un voccaperto” proprio a chi ci sembra non abbia l’aria da intelligente.

E’ come il nostro Premier Letta descritto sul Fatto da Travaglio, “ha una consistenza pari a quella del semolino, un calore umano una tacca inferiore a quello di una caldaia spenta, un’espressione da tinca lessa”. Il laziale non ha scuse né qualcuno che lo può sinceramente difendere.

Carriera disastrosa finora, ancora più come detto per una prima scelta assoluta. Non è un caso che anche i media italiani lo abbiano abbandonato, preferendo giustamente la passione del Beli e il talento in ascesa di Danilo che difatti anche nella copertura tecnica (Sky) e “ignorante” (vedi i meravigliosi servizi sia di Pif per MTV che di Pio e Amedeo per Le Iene) è il nostro più degno rappresentante in quantità e per qualità.

Poveri Knicks, mi sa comunque che anche se solo in un manipolo di gare d’inizio stagione si siano resi conto di chi abbiano in squadra.

Di sicuro se ne sono accorti già i commentatori newyorchesi che lo detestano a morte, ancor più i tifosi che al Garden lo hanno subissato di boo già alla prima stagionale dopo un primo 0-2.

Questa è NY, anche dopo i primi due tiri. E questo è Bargnani, che vi aspettavate potesse essere ?

 

Rysheed Jordan numero 1 dei licei di Philadelphia, scorgere il potenziale prossimo fenomeno NBA è sempre attraente

Rysheed Jordan numero 1 dei licei di Philadelphia, scorgere il potenziale prossimo fenomeno NBA è sempre attraente

Jordan from North Philly

Vedere dal vivo una gara di liceo è stata una delle più belle esperienze che abbia fatto in America. Del resto la NBA è in TV, al netto dell’arena piena di giochi e lustrini, il college è anche al cinema, sappiamo com’è fatto un campus, meno i divertimenti dei colleghi nei dormitori.

Il basket al liceo è invece una sorpresa totale e a Philadelphia, basketball city come poche, è immergersi in un mondo meraviglioso, lo stesso che irradia anno dopo anno i college e da qui la lega professionistica. E’ il principio della nostra passione a spicchi, subito dopo il playground e ancora prima del canestro nel giardinetto di casa.

Come lo è stato anche per Rysheed Jordan, quest’anno freshman a St. John’s, nel Queens. E’ una guardia (PG in ottica collegiale) di 1.96 da North Philly, appena diplomatosi alla Roberts Vaux High School, liceo nel quartiere a maggioranza afroamericana di Brewerytown, appena a nord del centro che a Phila si chiama Center City e non downtown come ovunque in America.

Nel ricchissimo draft del prossimo anno non è in copertina ma nemmeno nelle retrovie, posto che si dichiari subito, come invece appare scontato per i fenomeni Andrew Wiggins (Kansas), Jabari Parker (Duke) e Julius Randle (Kentucky).

ESPN nella sua Recruiting List dei 100 migliori liceali della nazione lo piazza al diciassettesimo posto, non male davvero, ma soprattutto è il primo in tutto lo stato e il terzo tra le point guard.

Per dire del valore relativo della lista, James Harden era ventunesimo, solo per fare un esempio. E’ impossibile essere oggettivi perchè i ragazzi non si incontrano tutti tra di loro ma solo eventualmente nei camp estivi dove la competizione non esiste e ci si mostra da soli come in una vetrina.

Al di là di tutto a Philadelphia era lui il numero uno, lo sapevano tutti in città. E se sei il numero uno della città tutti ti vogliono vedere e toccare per mano, sei già un divo, pure a quell’età.

Alla Carnesecca Arena vedranno un gran bel prospetto, un talento vero, tutto da raffinare come tanti altri ma già pronto per il college e certamente futuribile al draft.

Da Philadelphia al Queens, due ore di macchina, dal cuore nero della città dell’amore fraterno al classico campus modello isola nel contesto urbano metropolitano, al contrario di Temple però che non ha virtualmente confini a St. John’s si entra per dei cancelli, c’è il verde, ci si sente estraniati dalla città caotica, i campi aperti ti danno l’impressione di entrare in una dimensione nuova e lontana, come nei campus della sterminata provincia americana e come quelli dei suburbi, tipo Villanova.

C’è una costruzione stile cinese di fronte all’edificio che ospita le attività studentesche, tutto è come da copione, i ragazzi vanno e vengono dalla loro aule tecnologiche, c’è chi suona il piano, chi si prepara per qualche evento o festa, mi manca solo di vedere la figlia di Berlusconi che qui ha speso i soldi di papà Premier ma all’epoca non sospettavo avesse studiato qui e forse era già tardi per tentare l’approccio decisivo per sistemarmi definitivamente.

Volli fortemente andare ad una partita liceale. Ci sono riuscito in un paio di occasioni. La prima volta presso la Roman Catholic HS, in centro, che ha prodotto tra gli altri lo sfortunato Eddie Griffin (RIP) e il grande WR Marvin Harrison, il miglior bersaglio per anni di Peyton Manning con i Colts.

Salgo su al piccolo e angusto campo, al terzo piano del palazzo, già di per sé una stranezza. E’ una scuola privata, come da nome cattolica, c’è il prete a bordo campo, gli studenti su una sorta di palco dietro il canestro e tre fila strettissime attaccate alla linea laterale per mamme supporter e per uno straniero come me che può essere scambiato per scout, magari.

Tutto fila liscia come l’olio, i ragazzi in giacca e cravatta con i colori della scuola applaudono, la partita si infiamma per alcune giocate individuali, il prete continua a scrutare i suoi alunni proprio a fianco del bidello che conta la mazzetta piena di 5 dollari, il prezzo per entrare.

Bella questa atmosfera da liceo, c’è tutto, mi dico, i corridoi con gli armadietti, i trofei, il piccolo banchetto con rinfresco, sempre a pagamento, il classico tabellone HS style, bello, tutto, bellissimo, ma mi riservo un giudizio definitivo dopo la gara tra Vaux HS e MC&S HS, a North Philadelphia.

Vado a mangiare al Louis Esposito Dining Hall di T, altro nome familiare per una mensa invece opposta a quella romana. La filosofia è semplice, paghi una cifra, diciamo 8 dollari e puoi mangiare quello che vuoi, quanto vuoi, fino allo sfinimento.

I ragazzi ci sono abituati, io no, quindi se non ho limiti è così veramente, mangio tipo tre primi, quattro secondi e sei contorni, un sorso a una decina di bevande diverse, mi prendo un paio di pezzi di pizza e mi nascondo pure qualche panino in tasca.

Se è tutto compreso non lascio nulla, ovvio, mi alzo solo quando mi sento male. Così dopo l’abbuffata modello Ferreri vado piano piano alla scuola, questa volta pubblica, mi dicono che siccome è una gara di cartello l’hanno spostata in un’altra palestra perchè quella di casa è troppo piccola o comunque inagibile.

Per fortuna sono in enorme anticipo, vado a piedi su Girard Avenue ed entro in campo, sto solo io, ci sono solo alcuni dei compagni di Jordan sulle panchine.

A poco a poco arrivano gli altri, mi rendo conto che sono davvero troppo in anticipo, mi devo sorbire la sfida delle junior varsity, dei ragazzini livello minibasket solo che qui qualcuno arriva facilmente al ferro e qualcun altro la mette dagli otto metri con scioltezza.

Finita la gara quello che poi scoprirò essere il coach della squadra mi chiama e mi dice che devo uscire fuori dalla palestra, non capisco molto bene quello che dice, io mi alzo, esco e poi mi fa cenno di rientrare.

Pensavo che fosse finito tutto o che addirittura non fossi gradito, invece nel richiamarmi mi dice che mi aveva visto già da tempo sulle panchine quindi era meglio non fare il furbetto, anche se non era mia intenzione, pur io avendo ormai capito che c’era un passaggio che avevo saltato.

Dovevo pagare i 5 dollari perchè stava per iniziare la gara, quella vera, la gara di cartello che ha un prezzo come tutte le altre, liceo o meno, siamo pur sempre in America.

Difatti in poco tempo la palestra si riempe fino all’inverosimile, presto non riesce ad entrare nemmeno uno spillo, molti ragazzi sono spinti fuori.

Ovviamente sono l’unico bianco di tutto il palazzo, tranne lo speaker esaltato e più tardi uno spettatore, ma la percentuale è tipo del 2% anche perchè tutti intorno saremmo già sulle centinaia, stipati nel perimetro e nel volume del solo campo di gioco e io tra tutti il primo che è arrivato.

Riscaldamento, inno, cheerleader (non so perchè ma c’è anche una nana malforme tipo Elephant di Lynch che qui è di casa), comincia la gara, l’atmosfera è caldissima, ci sono anche i tifosi avversari che con quelli di casa si contendono la supremazia del tifo come tra due curve opposte.

Sono assiepati non più di venti centimetri dalla linea di fondo, sotto e ai lati del canestro, questa è una gara di licei pubblici e si capisce il perchè dagli studenti tifosi.

Sono esagitati, entrano praticamente in campo dopo ogni canestro segnato per esultare e uno subito per protestare. Se la gara dura i canonici 32 minuti, qui è durata tre volte tanto perchè si è costretti ogni volta a ricordare, ora in maniera pacifica ora con le minacce, che il rischio è la sospensione della partita se continuano gli atteggiamenti provocatori, le invasioni di campo e se si continua a stare in piedi e troppo vicino ai giocatori.

A un certo punto qualcuno tenta di sfondare a calci la porta d’ingresso, una laterale chiusa con un  innocuo lucchetto dietro una panchina, si teme l’invasione, l’impianto non si può permettere una persona di più tanto è stracolmo, io ovviamente sono saldamente seduto nel posto migliore, ultima fila sopra a centro campo, come minimo, stavo lì da ore.

La gara è sospesa, si decide di chiamare la polizia. Entrano due agenti, parlottano con allenatori e giocatori, si decide di continuare ma intanto fuori la palestra è letteralmente circondata per evitare che studenti e ragazzi del quartiere sfondino per entrare.

Sostanzialmente sono venuti per veder giocare Rysheed. Difficile giudicarlo in questo contesto ma i movimenti sono quelli di chi ce la può fare al livello di sopra, è fluido, sa gestire la palla, vede bene il campo, è atletico, intelligente, va dentro con piacere, la passa splendidamente.

La partita è tiratissima, punto a punto fino alla fine, i falli sono duri, le facce concentrate, si grida ad ogni canestro, sono felice di essere parte di un mondo che non conoscevo, il basket come colonna sonora, ma anche un po’ preoccupato perchè l’atmosfera è tanto tesa che si rischia più volte la rissa, anche contro gli stessi giocatori che sono minacciati ogni qual volta si toccano, è inevitabile data la vicinanza, con i suppoter avversari.

Già sono in terra straniera, penso, vero che è un campo da basket e siamo in America ma forse proprio per questo, sono a certo punto l’unico bianco, il pretesto è l’arma degli stupidi, mi tiene incollato al campo non più Jordan per cui ero venuto ma ormai proprio il clima unico.

La partita finisce, bellissima, da ricordare, financo il vip che tutti salutano e rispettano sotto di me ha alzato qualche volta lo sguardo distogliendo dal suo smartphone pieno di immagini di donne nude, tutte modello culone King magazine come piace a loro, si, solo una volta anche i miei occhi si sono fermati li sopra.

Esco, butto il panino in tasca che intanto si era fatto gomma, cammino per tornare a casa e mi accorgo che è come se avessi letto una bella pagina, fondamentale, del grande libro che chiamiamo società americana, prima ancora dello sport, del basket, di North Philly e dei licei pubblici cosi diversi da quelli privati, oltre il gioco c’è l’America spesso cruda, comunque nuda e pura.

Tutto intorno è già buio, ci sono solo le sirene della polizia a fare da riferimento visivo, gli agenti sono tutti intorno alla fatiscente struttura presa in prestito, chi passa da lì per caso può pensare che ci sia appena stato un omicidio.

O forse da quelle parti lo sanno, una gara di basket tra licei è anche questo. Anche questa è l’America, anzi, è proprio da posti come questi che i signori che ci deliziano nella NBA iniziano il loro lungo viaggio.

 

Spike Lee as Mars Blackmon, dietro lui la bellissima Lola e Michael The Greatest, anche lui from Brooklyn

Spike Lee as Mars Blackmon, dietro lui la bellissima Lola e Michael The Greatest, anche lui from Brooklyn

La non scelta di Spike 

C’è Spike Lee, il più grande regista afroamericano e in più in generale del cinema USA, avrete capito già che è nelle mie grazie.

Bene, qualche buontempone, con l’aiuto successivo di un miliardario russo s’inventa a un certo punto il trasferimento dei Nets dal casello autostradale sperduto nel nulla nel New Jersey a Brookyln. NY così avrà due squadre della NBA.

Come la prenderanno gli abitanti del borough più popolato, tra i cinque quello con il più forte senso d’identità e di appartenenza ? Dopo tanti anni senza sport pro, dopo lo scippo californiano dei Dodgers arriva finalmente qualcosa in cui credere.

C’è Spike soprattutto, come la prenderà lui ? Cambierà squadra ? E’ un tifoso Knicks da sempre, vedi, tra le mille espressioni, l’omaggio nel film Crooklyn dove uno di quei ragazzini indisponenti sogna ad occhi aperti il Madison Square Garden e i suoi eroi in “orange and blue”.

L’ambientazione però era proprio Brooklyn, prima di tutto questo, e lì il regista ci è cresciuto, si è formato come uomo e come artista e ancora oggi è la sede della sua casa di produzione.

In tutta la sua vita non ha fatto altro che gridare al mondo la propria passione per i Knicks e per Brooklyn, un orgoglio sfrenato che è ormai parte del suo personaggio.

Altri due piccoli esempi. In Lola Darling, suo primo splendido lungometraggio, se ne va in giro sempre con un cappellino con la bella scritta Brooklyn stampata in fronte, c’è il borough prima ancora che la città intera.

Non c’è partita al MSG, spesso si fa vedere anche in trasferta, in cui non si mostra agghindato con i colori della squadra seduto in quello spot che è ormai il suo da anni tanto che ESPN ne ha fatto anche un documentario sui rapporti di fuoco con Reggie Miller nemico in maglia Pacers.

Raramente ho visto un così grande tormento interiore, vale la pena di soffermarci un attimo. Ma è un tormento potenziale, perchè alla domanda, scontatissima, se mai i Brooklyn Nets avessero potuto sostituire i Knicks nel suo cuore lui ha non mai avuto esitazioni.

Si va a Manhattan, sempre e comunque, così come si continua ad andare nel Bronx per gli Yankees e nel NJ solo per i Giants. Spike sta dalla parte dei forti.

E’ stata la non scelta più importante che abbia visto in giro. Sono convinto di una cosa però, non lo sapremo mai, ma è una mia piccola supposizione.

Sono convinto cioè che nel suo intimo soffra un pochino a vedere i Nets giocare vicino casa, anzi proprio a casa, soffra nel veder vestito di nero il suo quartiere, con i ragazzi con la scritta Brooklyn sul petto che oggi è anche qualcosa per cui tifare, come Dante de Blasio in campagna elettorale che ha casa a un passo dal Barclays Center.

Non scelta e tormento potenziale. L’indefinito trionfa come un sussulto, come qualcosa che cresce senza che ce ne accorgiamo ma a cui Spike a saputo reagire con la non risposta più bella che potesse mai dirigere.

La passione ci tiene attaccati alla vita ma a un certo punto diventa storia. E la storia, come diceva il poeta, siamo noi.

 

 

7 thoughts on “Basketball stories nella New York di de Blasio

  1. Un po’ troppo duro su Bargnani?
    Intanto 8 rimbalzi, 5 stoppate, e un bel po’ di aggressività finora sconosciuta…
    non diventerà mai Rodman, ma che fosse solo capitato nel contesto sbagliato…?

  2. Spero vivamente che Bargnani ti smentisca (l’altra sera ha fatto un partitone)…per quanto abbia deluso (molto) finora, non merita tanto astio.

  3. Va bene la passione, va bene la voglia di scrivere, ma a volte scrivere 10 righe ma concise è meglio che scrivere un tema da 100 righe ma che gira intorno senza trovare il punto del discorso. Questo articolo, ben scritto e dove traspare sicuramente la passione per la pallacanestro, mostra però i maggiori due difetti del tifoso di basket italiano:

    1)Il provare ad emulare inutilmente l’Avvocato, raccontando storie magari interessanti, ma che poi risultano, per via di un esposizione prolissa, noiose e, passatemi il termine, ridicole. L’Avvocato è uno solo, con tutti i suoi ben definiti limiti (Black Jesus è bellissimo, ma la maggior parte dei racconti perdono la propria magia, complice un modo di scrivere TROPPO complicato e che a volte perde il filo del discorso), non cerchiamo di imitarlo.
    2)La mancanza di vie di mezzo: Bargnani non è un fenomeno e col senno di poi, essere stato scelto alla N.1 è stato il peggiore dei mali (se fosse stato scelto alla 5°/6° chiamata, ora ne parleremo molto meglio, sicuro). Ma non è un Byron Mullens/Steve Novak/Jason Kapono qualunque, non è per niente monotematico, anzi.

    Andrea è un grande giocatore fronte canestro, con caratteristiche tecniche seconde solo a Nowitzki tra i lunghi “moderni” (la finta + passo d’affondo è un movimento immarcabile, ed è parte del repertorio del Mago), discreto giocatore di post, non un buon difensore ma nemmeno il più scandaloso (prendendo sempre ad esempio Dirk, il tedesco come difensore è a momenti peggio dell’italiano), nemmeno un buon rimbalzista (il suo grande difetto, anche se a Toronto lavorava soprattutto di tagliafuori sui lunghi avversari, i rimbalzi li prendevano il Reggie Evans o Amir Johnson di turno), il problema suo è l’atteggiamento, troppo soft e spesso sparisce nei momenti decisivi. Ha perso il treno per diventare uno dei giocatori italiani più forti di sempre (le potenzialità le aveva), ma quello di diventare decisivo in una squadra da titolo di sicuro no.

  4. articolo partigiano e ricco di astio, il buon Mago ti ha subito smentito, alla faccia del monodimensionale.

  5. Ah allora non ero da solo a trovare l’articolo prolisso e senza un perchè.
    Poi un pippotto del genere su Bargnani non sono mai riuscito a farlo nemmeno io che non lo ho affatto in simpatia. Ma dire che Belinelli è meglio di Bargnani si commenta da sè!
    Bargnani ha l’intensità di un mocassino in pelle di camoscio ed è vergognoso sotto canestro (dove un 2,10 dovrebbe stare) ma ha due mani ottime e se ha il ruolo non di go-to-guy ma di seconda /terza scelta offensiva può essere devastante. A Toronto hanno costruito attorno a lui ed hanno toppato, per cui non può essere uomo-franchigia. Però a New York ha (salvo infortuni come adesso) Chandler sotto le plance, così lui è libero di giocare come preferisce e potrebbe essere una bella arma in più per New York quest’anno.

  6. perchè così duro con il Mago? anche io non lo amo particolarmente ma mi sembra un po’ eccessiva la tua critica.
    Non sono d’accordo sul non-amore verso LA. Sono stato sia a NY che a LA e, sebbene la Grande Mela sia davvero unica, anche la città degli angeli non scherza, fosse solo per Venice beach.

  7. Maurizio cugno
    Non ha smentito nessuno,ha giocato una partita ottima è poi ha fatto più schifo di prima…monodimensionale è dire poco

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