spurs353L’ultima corsa: sorprendente, meravigliosa e tremendamente incompiuta, interrotta a un passo dal titolo che avrebbe sancito la beatificazione tra gli eletti della pallacanestro per un gruppo di fuoriclasse tanto talentuosi quanto longevi.

Eppure, a pochi mesi da un epilogo che la ragione voleva epitaffio di uno dei più grandi cicli della storia dello sport, quella stessa squadra che teoricamente aveva già ballato il suo ultimo tango guarda tutti dall’alto in basso.

Tredici vinte e due perse, questo l’imbarazzante inizio di stagione dei San Antonio Spurs; record di franchigia, per vedere l’effetto che fa alla soglia dei vent’anni della gestione Popovich, il Ferguson della Nba, che all’ombra dell’Alamo qualche piccola soddisfazione se l’è tolta.

La partenza a razzo dei bianconeri fa gridare quasi al miracolo; ma la casualità, da quelle parti, è tendenzialmente equiparata alle chiacchiere, che stanno tradizionalmente a zero e scendono addirittura al di sotto se parliamo di Gregg Popovich.

L’ex agente della CIA è il manifesto dell’essenziale: modi spicci, carattere da duro, e la spiccata tendenza a non fare prigionieri. Ecco perché, quando abbiamo a che fare col leggendario coach Pop, il caso e l’imponderabile non trovano spazio: il suo sistema è una formula vincente che ha il dono tanto grande quanto raro di sapersi adattare ai tempi che cambiano.

Solo così si può costruire una dinastia che vive la sua diciottesima stagione (sedici delle precedenti diciassette concluse con record dalle 50 vittorie in su, un record incastonato nella storia dai quattro titoli vinti), un raro esempio di sfida con Father Time che finisce quantomeno in parità.

Il sole attorno al quale ruota la franchigia è sempre il solito: Tim Duncan, una vita in simbiosi sportiva e spirituale col suo coach, del quale è sempre più la longa manus sul parquet. Il caraibico va per la diciassettesima stagione tra i pro; il suo rendimento non appare dei più brillanti all’alba della stagione, ma paradossalmente questo potrebbe essere un punto a favore delle ambizioni dei texani.

Non si può certo chiedere a un atleta di 37 anni e con mille partite abbondanti da professionista sulle spalle un rendimento da Mvp per tutta la regular season; il suo apparente periodo di appannamento potrebbe quindi essere frutto di una scelta calcolata, per preservare il suo prezioso motore dal serbatoio ormai poco capiente per quando il gioco si farà duro, da metà aprile in poi.

Intanto, però, la sua presenza totemica al centro della squadra rimane inattaccabile, e c’è da stare certi che quando salirà la tensione il professore da Saint-Croix tornerà in cattedra per dispensare lezioni di pallacanestro.

Al suo fianco gli scudieri di sempre, Tony Parker e Manu Ginobili: il mancino da Bahia Blanca sembra aver dimenticato i dolori e gli acciacchi del recente passato, che lo hanno limitato anche nel corso delle Finals contro gli Heat. Manu guida la panchina col piglio del direttore d’orchestra, con un’intelligenza e una sagacia uniche unite a quella magia sudamericana che non smette mai di sorprendere e di farsi ammirare.

Il play francese, dal canto suo, è ormai uno degli Illuminati del gioco: l’apoteosi Europea con la sua Francia, guidata alla vittoria con una mirabile alternanza di tocchi di fioretto e colpi di sciabola, lo ha sublimato come uno degli artisti più soavi della palla a spicchi.

Ma gli Spurs non finiscono qui, perché attorno al trio di senatori stanno sbocciando giovani talenti che con le loro forze fresche portano nuova linfa alle ambizioni dei texani. Danny Green ha smesso da un pezzo di essere una sorpresa, e dopo il clamoroso record di triple realizzate nelle scorse Finals è sempre più una macchina da tiro e una minaccia costante sul perimetro.

Kahwi Leonard, invece, è ormai un All-Star non più in the making bensì fatto e finito: una Piovra che coi lunghi tentacoli arriva ovunque in difesa e fa faville in attacco, con una maturità inversamente proporzionale all’età e all’esperienza tra i pro. Intelligenza cestistica ai massimi livelli unita a un carattere schivo che lo porta ad evitare le luci della ribalta: coach Popovich non può che amare questo giovane diamante, che sembra in completa simbiosi con lui e con la franchigia.

A completare un quadro che più idilliaco non si può, troviamo una miscela di giocatori di sistema capaci di interpretare magistralmente il ruolo di ingranaggi nel meccanismo di precisione sivzzera ideato da coach Popovich: Boris Diaw è principesco per l’intelligenza e la raffinatezza del suo gioco, Splitter ha superato il trauma di essersi stampato contro la muraglia LeBron in gara due di finale e contribuisce con minuti di qualità.

E poi c’è il Beli, che dopo una vita da nomade nei primi anni di Nba ha sfruttato la chance della carriera ai Chicago Bulls, guadagnandosi il pass per entrare nella ristretta e esclusiva cerchia degli eletti di coach Popovich. Il sistema di gioco di San Antonio è un abito di sartoria disegnato su misura per il giocatore da San Giovanni in Persiceto, che in venti minuti dalla panchina esprime tutta la maturità cestistica acquisita grazie al pane duro mangiato nel corso del suo peregrinare da un angolo all’altro del Nord America.

Marco ha la possibilità di giocare per il bersaglio grosso e il privilegio, tra gli altri, di frequentare tutti giorni i corsi di pallacanestro di un certo Manu Ginobili: una storia che parla dei corsi e ricorsi del destino, perché proprio il gaucho argentino era il maestro di un ragazzino che si affacciava al basket dei grandi, guardandolo ammirato e pendendo dalle sue labbra. Quel ragazzino adesso è un uomo, e gioca accanto al proprio idolo con la naturalezza di chi lo ha fatto da sempre; provate a chiedere a coach Thibodeau quanto manca ai suoi Bulls l’apporto di Marco, sostituito dal coniglio bagnato Dunleavy, e capirete che tipo di giocatore ha saputo diventare l’azzurro.

Il mix è di quelli da far girar la testa: coach Popovich guida l’ennesima fuoriserie di una dinastia infinita, una squadra che ha iniziato la stagione tritando gli avversari con apparente facilità. Le rotazioni lunghe permettono di contenere i minuti dei grandi vecchi, esaltando al contempo i giocatori di contorno; gli Spurs danno l’impressione di avere inserito il pilota automatico, e non sembrano avere alcuna intenzione di fermarsi.

C’è chi parla già di record di vittorie, ma gli obiettivi veri sono altri: anche quest’anno il ruolo di contender spetta di diritto ai texani, che al momento sembrano i padroni dell’Ovest.

In una Nba che cambia e si evolve a ritmi vertiginosi, se avete bisogno di certezze buttate un occhio verso l’Alamo: tra protagonisti vecchi e nuovi, sorprese, tonfi inattesi e squadre in cerca d’autore, gli Spurs sono sempre sulla cresta dell’onda, con un mirabile esempio di evoluzione della specie.

Darwiniani, intramontabili, entusiasmanti: anche quest’anno la Nba dovrà fare i conti con l’ineffabile Pop e i suoi discepoli.

 

One thought on “L’evoluzione della specie: gli Spurs “darwiniani” sempre sulla cresta dell’onda

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