Nell'era moderna della pallacanestro, questo si può a tutti gli effetti considerare come il primo passaggio di consegne...

Nell’era moderna della pallacanestro, questo si può a tutti gli effetti considerare come il primo passaggio di consegne…

Be like Mike

Correva l’estate del 1991, e Michael Jeffrey Jordan aveva appena vinto il suo primo titolo NBA, mentre una nota azienda di bevande lanciava la sua campagna pubblicitaria incentrata sull’essere come Jordan; proprio in quei giorni un ragazzino di nome Kobe Bean Bryant chiuse l’intero torneo della Sonny Hill League di Philadelphia senza mai segnare. Non un lay-up rubato, non un libero. Zero.

Quando i Bryant tornarono a vivere a Philly in pianta stabile Kobe passò dal non segnare un punto in un torneo estivo a chiudere il suo quadriennio scolastico come miglior realizzatore della storia delle High School della Southern Pennsylvania con un record di 31-3 con la maglia di Lower Merion.

Lui e Tim Thomas erano considerati i due migliori liceali d’America, ma mentre Thomas optò per Villanova, Bryant declinò le offerte di Duke e LaSalle (caldeggiata da papà Joe) per andare, con la consueta impazienza, direttamente nella NBA.

A Los Angeles, ci mise poco a inimicarsi lo spogliatoio. I compagni mal sopportavano l’etica lavorativa di Kobe e la sua timidezza fu scambiata per presunzione e senso di superiorità; Rick Fox disse ai giornalisti che Bryant sembrava avere una sua tabella di marcia, che stava rispettando a prescindere dai risultati di squadra.

Quando Kobe e Shaq si trovarono d’accordo nel chiedere a Jerry West di essere allenati da Phil Jackson, Mr.Logo ruppe gli indugi e chiamò il Grande Capo Triangolo, che pure non stimava molto, nella speranza di costruire un’intesa tra i due. Jackson ha raccontato che nel suo primo incontro, Kobe si presentò con una copia di Sacred Hoops da farsi autografare e si disse molto eccitato all’idea di giocare nello stesso sistema in cui aveva giocato Michael Jordan.

Il rapporto partì con il piede giusto, ma i problemi erano dietro l’angolo: mentre Jackson voleva che Bryant crescesse nel ruolo che era stato di Scottie Pippen, Kobe, dopo un primo anno di apprendistato voleva espandere il suo gioco, confortato dalla prova memorabile di Gara 4 delle Finali 2000.

 

Jackson aveva allenato Jordan, e non era nuovo alle resistenze delle susperstar ad accettare limitazioni, ma sapeva, proprio com’era stato per Michael dieci anni prima, che, senza il supporto delle stelle, il sistema non avrebbe mai funzionato.

Shaquille era un giocatore ventisettenne che mostrava entusiasmo per tutto quello che Jackson diceva; il giocatore da convincere era il giovane Kobe, che tardava a mescolarsi con gli altri membri del roster. Il ragazzo chiamato come una bistecca li faceva sentire inutili, chiuso nella propria torre d’avorio, con lo sguardo fisso sui propri obiettivi.

Durante la stagione del back to back, mentre Bryant recuperava dagli infortuni che lo affliggevano, le cose iniziarono a migliorare. Un giorno, frustrato, si lamentò con Brian Shaw: “Non riesco a fare quello che ho sempre fatto”. Brian rispose: “Beh, Kobe, io mi sento così tutti i giorni”.

Mentre i rapporti con O’Neal declinarono (Robert Horry attribuisce la colpa a Phil Jackson, che usava mediaticamente Kobe per tenere in riga Shaq) quelli con i compagni, dai mentori Shaw e Harper, passando per Fisher e Fox, migliorarono.

I mass media, specialmente dopo i fatti del Colorado e l’addio di Shaq e Jackson, hanno fatto di Bryant un villain, un cattivo. Le prove generali si erano svolte negli anni in cui The Combo dominava la NBA: Shaquille era sempre accessibile e pronto a rilasciare una dichiarazione colorita, Kobe invece vestiva i panni del solitario malmostoso. Jackson ci mise del suo, criticando Bryant, che, aveva capito, avrebbe lavorato duro in ogni caso, per far sentire protetto uno Shaq che, viceversa, si sarebbe adagiato volentieri sugli allori.

L’ex centro dei Knicks aveva usato metodi simili anche ai tempi di Chicago, ma l’alchimia tra Pippen e Jordan era molto diversa da quella tra O’Neal e Bryant. Se MJ aveva una personalità dominante, The Afroman era nato per essergli complementare: quando Michael aggrediva i compagni con una delle sue leggendarie sfuriate, Scottie aveva una parola consolatoria per tutti.

Mentre Jordan, come Bryant, faticava a capire la psicologia dei compagni, Pippen era viceversa molto più empatico e pronto a immedesimarsi in giocatori che avevano solo una frazione del suo talento.

Michael, cresciuto in una famiglia numerosa e solida nella bucolica Wilmington, è sempre stato ossessionato dalla vittoria al punto da non voler gareggiare dove non fosse stato in grado di vincere. A dire di Phil Jackson, mentre Kobe limita la sua competitività alla pallacanestro, con Jordan tutto era una sfida, dalle sedute in sala pesi alle partite a carte in trasferta.

Jordan beneficia di un’immagine pubblica positiva che ha sempre curato con attenzione. Anche nei momenti in cui diceva a Tex Winter che a lui passare la palla non serviva perché tanto nessuno poteva marcarlo, pubblicamente dichiarava che “non esiste io, ma solo noi”.

Michael piaceva al pubblico, era divertente, dava tutto ed era un personaggio carismatico; raccontare qualcosa di lui assicurava l’attenzione dei lettori, per cui, anche nei momenti in cui i rapporti con il resto della squadra e con la dirigenza arrivarono vicinissimi alla rottura (nel 1988, andò ad una telefonata di conferma dall’essere spedito ai Clippers) rimase un pupillo di sponsor e media.

Forse anche per questo Dan Greene e David Halberstam diedero credito alla storia secondo la quale Jordan fu scartato dalla squadra della sua piccola High School, in North Carolina, nel 1979. Questo racconto, che vedeva Michael nella parte del ragazzino sottovalutato ed umiliato che con il duro lavoro conquista l’agognata maglia della squadra, è in realtà fasullo, ma ebbe ed ha tutt’ora molto credito.

In realtà, quando si trattò di scrivere le due liste (Varsity e Junior Varsity) Michael trovò il suo nome con quello di tutti gli altri Sophmore, mentre Leroy Smith, che aveva la stessa età, era con la squadra Varsity; non perché fosse più forte, ma perché superava già i due metri e al Varsity Team serviva un centro.

La realtà sarebbe stata avvincente abbastanza, a saperla raccontare, ma sono i titoli a vendere i giornali e le riviste, e scrivere la parola “Jordan” ha sempre attirato l’attenzione, innescando una gara al superlativo che ha reso sfumato il confine tra realtà e finzione.

La popolarità di Michael era così soverchiante da farlo sentire circondato, senza privacy. Tutto ciò finì con l’aiutarlo negli anni in cui maturava come leader: i compagni di squadra divennero i suoi sodali, gente che conosceva da anni e non opportunisti che tentavano di saltare a bordo del carro del vincitore.

michael-jordan-north-carolinaDue posti erano sacri, per MJ: il Berto Center di Chicago e Chapel Hill, dove lo aspettava sempre il maestro Dean Smith. La rivalità con i fratelli, il rapporto complice con il padre James, e gli anni d’esperienza con i Tar Heels hanno formato Jordan, rendendolo un individualista capace di relazionarsi con il gruppo, e di fare riferimento ad alcune figure paterne.

Bryant è invece cresciuto in Europa, straniero in terra straniera, con i genitori e le due sorelle maggiori. Adattatosi alla vita nel belpaese, venne il momento di rientrare negli USA, e lì si trovò nuovamente a recitare la parte dell’outsider che non parlava lo slang e giocava un basket diverso da quello dei circuiti AAU.

Abituato ad essere isolato dalla sua storia personale, la decisione di bruciare le tappe per arrivare in NBA direttamente dall’High School non lo ha certo agevolato: in uno spogliatoio di adulti, un diciassettenne chiuso e taciturno non era destinato a essere molto popolare.

Bryant è cresciuto senza mai mettere radici, senza costruire rapporti, e questa sua chiusura verso il mondo divenne un ostacolo nei rapporti con i compagni, oltre che con la stampa. Se Jordan e Kobe si somigliano molto sul campo e nell’attitudine verso la competizione, la loro percezione mediatica opposta deriva dalla leadership naturale di Michael, che rendeva più semplice dimenticare l’asprezza del suo carattere, mentre l’ostinata clausura di Bryant non faceva che ribadirla.

Sia Kobe sia Michael volevano vincere, non essere popolari a tutti i costi, ma Jordan, dopo gli splendidi anni a North Carolina, era abbastanza scafato da conoscere le logiche del cameratismo e dei media. Poteva non essere il compagno più accomodante del mondo –eufemismo– ma era un animale sociale, capace di coltivare un’immagine pubblica e di circondarsi delle persone giuste. La sua tendenza accentratrice, le sue sfuriate, sono state filtrate dai media come sintomi di leadership; viceversa per Bryant, sono state additate come sintomo della sua arroganza, quando, in realtà, in entrambi i casi la verità sta nel mezzo.

In economia, esiste un fenomeno detto “cattura del regolatore”, che descrive come gli organismi di controllo a volte perdano inconsapevolmente di terzietà, finendo col sostenere le posizioni dei controllati. Potremmo mutuare (senza troppe pretese) il concetto nel giornalismo sportivo: i cronisti raccontano da una posizione teoricamente imparziale, e in qualche misura, “controllano” il mondo dello sport.

Alcuni atleti consentono di vendere di più, hanno, cioè, più forza attrattiva; sono maggiormente disponibili e questo rende più semplice raccontarli, contribuendo ad accrescerne la popolarità. Più sei accessibile, più sei facile da raccontare. Più sei facile da raccontare, più sarai popolare e converrà parlare di te, in soldoni.

Con tutta la buona volontà, sarebbe molto difficile riempire i titoli dei giornali con le dichiarazioni di Tim Duncan o le sregolatezze di Kevin Durant ed è questo il motivo per cui sono giocatori straordinari che non ricevono mai (nel caso di Duncan) o ancora (nel caso di Durant) l’attenzione che il loro talento meriterebbe, ma, e Bryant lo dimostra, l’attenzione dei giornali non coincide necessariamente con il loro plauso.

Come tutti gli esterni del dopo-Jordan, anche Kobe si è dovuto misurare con l’assioma senza scampo per cui Jordan è il migliore, dunque ogni divergenza dal modello è un’aberrazione, ma allo stesso tempo, è anche inimitabile, per cui tentare di eguagliarlo o superarlo è un’eresia.

lebron-jamesUn altro giocatore ha dovuto fare i conti con la leggenda di MJ è LeBron Raymone James. Non che da un punto di vista tecnico i due si somiglino: chi li ritiene giocatori affini, non capisce né l’uno né l’altro: mentre MJ è stato un accentratore di gioco per il quale il passaggio era la risposta ad un raddoppio, LeBron è un playmaker naturale per il quale il tiro è una delle tante opzioni sul tavolo.

James, a differenza di Bryant e Jordan, non è un killer nato, e nemmeno un individualista forsennato. Si è sentito dare del debole o del perdente perché il suo gioco non gli consente di essere un closer del livello degli altri due, ma la sua forza alberga in altri aspetti del gioco, e, se l’addio ai Cavs in favore di Miami ha certamente denotato i limiti del giocatore, che è capace di gestire solo una certa dose di pressione, allo stesso tempo gli ha consentito di trovare una sua dimensione. Oggi LeBron gioca un basket devastante, Jordan o non Jordan.

Quando Gloria James lo mise al mondo, il 30 dicembre 1984, era una ragazza madre di Akron, Ohio. Padre sconosciuto. Dopo sette traslochi in cinque anni e tanti lavori cambiati, Gloria, decise di affidare il pargolo alla famiglia di Pam e Frank Walker, che allenava delle squadre locali di Football.
James è cresciuto sentendo il pressante desiderio di appartenere al gruppo, lui che, figlio di una madre single sedicenne, continuava a cambiare casa e non aveva amicizie durature.

Rispetto a Jordan o a Bryant, LeBron è molto meno individualista, dicevamo, ed è l’aspetto più bello del suo carattere, mentre alcuni media, tutti intenti a costruire un improbabile parallelo con His Airness, cercano di nasconderlo come se fosse un difetto.

LeBron sa di dovere molto ad alcune persone, che l’hanno protetto e aiutato nei momenti in cui la sua vita avrebbe potuto imboccare direzioni pericolose. Quando scelse di iscriversi a St. Vincent-St. Mary High School (una scuola privata frequentata quasi solo da bianchi) anziché nella locale scuola pubblica, portò con sé gli amici della squadra AAU, Dru Joyce III, Willie McGee e Sian Cotton.

James, a differenza di Michael e Kobe, ha sempre saputo che farcela da soli è impossibile, e in questo c’è una buona dose di realismo, mentre nel tentativo di dominare di Jordan e Bryant c’è un elemento di visionaria ambizione che LeBron non ha.

Mentre ad MJ occorsero tre eliminazioni filate contro i Pistons delle “Jordan Rules” per rendersi conto che solo il collettivo gli avrebbe consentito di superare l’ostacolo, LeBron è sempre stato un giocatore eminentemente di squadra.

 

Se Bryant ha impiegato anni per capire come guidare il gruppo, per King James fare squadra è sempre stata questione d’istinto.

Questo non fa di James un buon leader e di Kobe uno cattivo, e non lo rende nemmeno un giocatore superiore, come piace lasciar intendere a tanti columnist, ad esempio Bill Simmons di Grantland e ESPN – la rete che per prima si è legata a LeBron in un fruttuoso sodalizio; sono semplicemente due modi diversi di mettersi alla guida di una squadra, posto che il tuo roster è popolato da mozzarelle, potrai incoraggiarle fino a non avere più voce, ma non andrai molto lontano.

Entrambi, a ben vedere, danno il loro meglio con compagni talentuosi: LeBron può mettere in mostra il suo arsenale senza essere costretto a fare la one-man-band, Kobe può limitare il numero di tiri. Quando hanno giocato in squadre meno ricche di talenti, James è stato criticato per non essere stato abbastanza protagonista, Bryant invece è stato fatto a pezzi per esserlo stato troppo.

Mentre King James gode generalmente di buona stampa, esiste, come ama ripetere Jeff Van Gundy, una consistente porzione dei media che non è intenzionata a riconoscere la grandezza di Bryant.

 

Alla luce dei tre lustri nei quali Kobe è stato descritto come un cancro per ogni spogliatoio e un giocatore egoista, ne prendiamo atto, ma ci permettiamo di dissentire, sicuri di essere supportati dai fatti. I giocatori problematici non tengono assieme la squadra, dopo aver perso le Finali e non si integrano immediatamente con qualunque compagno, sia esso Nash, Gasol o Smush Parker.

Un documentario sulla stagione 2008-09 di Bryant e James racconta il rapporto (nato durante l’Olimpiade di Pechino) tra questi due giocatori così caratterialmente distanti.

LeBron parla dell’amore per il gioco che li accomuna e di quanto sia diverso il Kobe privato rispetto alla sua immagine pubblica, mentre Bryant ridacchia affianco a lui. È incredibile come una porzione della stampa si faccia in quattro per ripresentare accuse che potevano forse essere valide quando Kobe aveva 22 anni, ma non certo per il giocatore che è diventato in seguito, senza soffermarsi sul ruolo che ha avuto Bryant sin dal primo allenamento di Team USA, passato senza prendere tiri perché nel meeting con lo staff aveva appena finito di dire che le vittorie sarebbero arrivate con difesa e rimbalzi (salvo poi essere stato il giocatore decisivo del quarto quarto contro la Spagna).

 

Bryant non nutre illusioni e sa bene che, qualunque cosa farà, riceverà critiche, mentre LeBron riceverà plausi, e in quell’intervista LBJ e il Black Mamba se lo dicevano serenamente l’un l’altro, consci che la propria immagine pubblica dipende relativamente da ciò che si fa in campo e molto dal tagli che i giornalisti danno ai loro articoli.

In fondo, tutti questi problemi su chi sia il Diavolo e chi l’Angelo riguardano chi non scende in campo, perché sul parquet valgono i fatti e non le parole: chi è forte domina e vince, e LeBron, Kobe e Michael hanno vinto e dominato, ciascuno a modo suo, secondo il proprio carattere e secondo il proprio percorso personale.

L’impatto mediatico sarà pure diverso, ma chi segue questo sport con autentica passione, anziché secondo le antipatiche logiche del “tifo”, non può che rendere omaggio a tutti e tre questi giocatori, che costituiscono tre delle massime espressioni di questo gioco meraviglioso, apprezzandoli in virtù delle differenze, senza costruire “leggende” o lanciare anatemi solo perché un giocatore è più simpatico di un altro.

 

4 thoughts on “Path to Greatness: da Michael a Lebron passando per Kobe

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