cousdem5875Ci sono storie di basket che non hanno niente a che fare con tutte le altre. Ci sono giocatori che solo nominalmente fanno parte della schiera dei 450 che quasi ogni sera scende in campo per indossare canotta e pantaloncini infiammando le arene NBA.

Alcuni di essi, una vera manciata di eletti, portano in dote un mucchio di altre cose: aneddoti, etichette, modi di dire, stili di vita e di gioco ma soprattutto personalità istrioniche e spesso guai. Hanno la preoccupante tendenza ad ammaliare chi ha la fortuna di osservare i loro gesti – più che le loro gesta – da vicino. Trasmettono elettricità. Danno colore. Sono quei giocatori che anche se non compariranno mai in cima alle classifiche ogni epoca dei punti realizzati o delle vittorie conquistate non importa.

Prima che ve ne possiate accorgere si sono già impadroniti di una piccola fetta del vostro cuore, se un cuore ce l’avete e non siete dei maledetti cyborg col paraocchi per tutto ciò che rimbalza leggermente al di fuori del rettangolo di gioco.

Ci vuole fantasia, è vero. Bisogna possedere una certa capacità d’immaginazione per arrivare a godere appieno delle loro potenzialità, che sono immaginifiche per l’appunto. Proprio come i famosi prigionieri incatenati con la faccia rivolta verso il muro, protagonisti del mito della caverna di Platone, siamo abituati a vedere e riconoscere soltanto le ombre del loro gioco.

Ogni minima esposizione al bagliore luccicante del loro formidabile talento, così come la visione improvvisa e sconosciuta della luce del sole da parte dei reclusi della caverna, può accecare. Il problema è che il lampo è spesso l’eccezione e non la regola. L’effetto che fa veder giocare gente come Sprewell, Rasheed Wallace o Mad Max, al secolo Vernon Maxwell, per dirne solo alcuni, è lo stesso di quando inviti a cena la più bella della scuola. La passione è tale che senti di poter donare l’intera tua vita a chi ti sta di fronte da un momento all’altro.

Allo stesso tempo però l’insopportabile sensazione che ciò che stai vivendo ecceda le tue concrete e reali possibilità e che l’idillio dell’incontro non possa durare per molto tempo ancora non ti abbandona mai. Ecco DeMarcus “Boogie” Cousins è uno di questi. Uno di quelli di cui non vorresti innamorarti mai ma finisci inevitabilmente per caderci.

Uno di quei giocatori che arrivano nella lega con un foglietto di effetti collaterali e controindicazioni lungo quanto un lenzuolo. Contemporaneamente però porta in dote un misto di caratteristiche offensive che non sono facilmente reperibili al primo alimentari all’angolo della strada.

C’è chi l’ha paragonato a Shaq per il suo strapotere fisico, chi a C-Webb per versatilità e range di tiro ma soprattutto – crediamo – per la speranza che abbia lo stesso impatto sulle sorti della franchigia della California.

Uno dei confronti che si sente più spesso è quello con Rasheed. Emana la stessa aura prodigiosa e insieme rarefatta di grandezza. E lo stesso Boogie sembra gradire, visto che in un recente incontro con i Clippers, in seguito a un libero sbagliato da DeAndre Jordan, ha pensato bene di gridare: «Rasheeeed!!!» Che abbia lanciato una nuova moda, dopo il celeberrimo ball don’t lie?

Comunque sia il ragazzo sembra essere pienamente consapevole di quale sia il solco nel quale vuole iscrivere la sua storia cestistica. Ora che Shaquille O’Neal poi ha acquisito delle quote della proprietà dei Kings e si è arrogato il diritto di fare da mentore a DeMarcus, in tanti sarebbero disposti a pagare oro per assistere alle loro conversazioni.

C’è da farsi due risate a sentirli gigioneggiare. «Mi piace molto il suo gioco. Apprezzo tantissimo la ferocia che mette all’interno del rettangolo di gioco. Odia perdere, succedeva anche a me quando venivamo eliminati dai Jazz tutti gli anni» dichiara lapidario O’Neal.

Sarà una coincidenza, ma Cousins si è reso quest’anno protagonista di un inizio campionato davvero devastante, almeno offensivamente: segna 22.0 punti e cattura 9.9 rimbalzi col 48.6% dal campo. A questi aggiunge anche 1.6 palle recuperate e 1.3 stoppate per partita. Tutti career high, eccetto che per i rimbalzi. Sì ok.. direte voi, e allora?

Allora c’è che il nostro sta in campo per soli 30.5 minuti a sera perché ha la sconcertante abitudine di far cadere la mannaia su tutto ciò che passa dalle sue parti e commettere falli in quantità spropositata (primo in NBA con 4.4).

Quella dei falli è proprio una specialità della casa, un marchio di riconoscimento. Ha guidato la lega nella speciale classifica in entrambe le sue prime due stagioni e, visto che l’anno scorso Howard si è permesso di superarlo, in quella appena iniziata ci si sta applicando con rabbioso zelo. Il suo compagno Chuck Hayes ha provato a indicargli la via: «Dovrebbe essere il primo a far vedere che non detesta gli arbitri. Potrebbe cominciare imparando i loro nomi di battesimo. Me l’ha insegnato Battier, è incredibile quanta differenza faccia».

Per fortuna il sito stats.nba.com ci offre la proiezione dei suoi numeri su 36 minuti, il minutaggio medio per una superstar NBA del suo calibro. Siamo sui 26.0 punti e 11.7 rimbalzi a partita. Praticamente nel Gotha dei Big Men e forse anche oltre. Se si considerano i punti per 100 possessi è secondo dietro a LBJ (prima di KD e Paul George).

D’altronde le sue qualità in attacco sono sotto gli occhi di tutti. Per essere 211 cm e quasi 123 kg, ha piedi molto veloci e una capacità di ball-handling inusitata. Non è raro vederlo partire in palleggio da una parte all’altra del campo. Ha un range di tiro molto ampio, anche se è un po’ troppo innamorato del suo jumper, di cui tende ad abusare.

Prende il 29.3% dei suoi tiri (86 su 294) dal cosiddetto mid-range con una percentuale di realizzazione del 37.2%. Nella restricted area tira invece col 63.8% (83/130). Ed è per questo che ogni staff tecnico per la mani del quale sia passato ha cercato in tutti i modi di spronarlo ad aumentare sensibilmente le soluzioni di questo tipo. DeMarcus ci sta lavorando e gli effetti si vedono, anche se la tentazione di prendersi gioco del lungo avversario esibendosi in un balletto sul parquet concluso con tiro dai 5-6 metri e dedica susseguente rimane comunque forte.

demarcus-cousins-first-all-star-game-appearance-2014-all-star-weekend-new-orleansNon dimentichiamoci che Cousins deve il soprannome “Boogie” che ormai lo contraddistingue ad un altro poeta maledetto del gioco, quel Rod Strickland che una volta, quand’era assistente di Calipari a Kentucky, si rivolse al suo centro con un: «Man, you got a lot of Boogie!» riferendosi con ciò alla sua soprannaturale – per un lungo – mobilità sul terreno di gioco e all’innata abilità nel fare con la palla ciò che gli esterni della squadra potevano soltanto immaginare.

Danzava sul parquet come un moderno Nureyev con la palla da basket in mano. In un curioso work-out pre-draft in cui il personal trainer che avevano in comune gli aveva organizzato un duetto in palestra con nientemeno che Kevin Durant, dopo essere stato battuto in palleggio ed aver subito una poderosa schiacciata sulla propria testa, lo stesso KD fu costretto a chiedere non senza perplessità al suddetto trainer: «Non mi avevi detto che era un centro?».

Se poi si considera che Cousins è terzo in tutta la lega per close touch – vale a dire i possessi entro 12 piedi di distanza dal canestro – con 8.2 a partita e immediatamente a ridosso di Pekovic e Marc Gasol, si percepisce quanto possa essere vasto il suo arsenale di armi in attacco.

Fra coloro che hanno almeno 4 di questi close touch (in genere i lunghi che stanno in campo per un buona parte di gara) è terzo per minuti a partita in cui tiene il pallone con 1.9 di media, sintomo di un eccessivo ristagno del gioco nelle sue mani. Anche perché i primi della lista sono Love e Pau Gasol, due che in linea di massima tendono a partecipare in svariate maniere alla costruzione dell’azione e non possono essere considerati puri e semplici finalizzatori.

Ovviamente nel valutare tutte queste statistiche è utile ricordare, ancora una volta, che in media sta in campo un po’ meno rispetto ai suoi avversari di categoria. Nonostante questo, è sesto per impatto stimato delle cifre di un singolo giocatore su quelle della propria squadra (PIE) col 17.0%. Meglio di lui fanno solo, in ordine, James, Durant, Paul, George e Love – praticamente i candidati al titolo di MVP di questa stagione.

E’ il migliore invece dell’intera lega per usage rate fra coloro che giocano più di 5 minuti: sono suoi il 35.0% dei possessi offensivi dei Kings quando è in campo. Quest’ultimo dato in particolare rimanda probabilmente al fattore decisivo di cambiamento avvenuto in estate e che ha portato il suo gioco a un livello superiore.

Il fatto che il nuovo management, rinnovato a partire dall’owner Vivek Ranadive per finire col coach ex-assistente ai Warriors Mike Malone, abbia messo DeMarcus al centro del progetto senza se e senza ma, come è testimoniato dall’estensione contrattuale di 62 milioni di dollari in 4 anni che gli è stata garantita.

Così facendo, il GM D’Alessandro ha legato indissolubilmente le fortune a medio e lungo termine dei Re della California al ragazzone di Mobile, Alabama. E “Cuz” sta facendo di tutto per onorare il nuovo max contract. Quelli veraci come lui, quelli che non hanno peli sulla lingua e quello che pensano è ciò che dicono, quelli che valutano i comportamenti degli altri usando il metro della correttezza, tendono ad apprezzare la lealtà.

Se coinvolto e rispettato, Boogie è capace di darti l’anima, di combattere fino a morire per te. Se si sente in discussione invece, è molto più facile che non si sporchi neppure le mani se non strettamente necessario. Purtroppo per i Kings tende a scontentarsi della situazione con estrema facilità.

Dal canto suo, il giocatore non ha mancato di far conoscere a tutti il suo gradimento riguardo al marcato cambiamento verificatosi in società, criticando la passata gestione Maloof e le scelte operate sul campo dalle precedenti guide tecniche (“sembravamo una squadra AAU… Il sistema di gioco che abbiamo ora è il migliore che abbiamo mai avuto… in passato era un’impresa costruirsi un tiro, oggi è più facile… è come se avessimo sprecato un sacco di tempo. Siamo stati i peggiori in questi anni”).

Con il nuovo coach per ora tutto sembra filare per il verso giusto. Durante uno degli allenamenti estivi in cui Malone correva con la squadra, DeMarcus si stupiva: «Non abbiamo mai avuto un allenatore che sprintasse con noi». Considerazione di Mike: «ah, perché facevi pure degli sprint in passato?».

E qui emerge il primo dei difetti del nostro: la lingua lunga. La scorsa settimana dopo aver saltato la partita coi Thunder per una distorsione alla caviglia destra ha ritenuto di dover rilasciare alla stampa le seguenti parole: «Se sarò in grado di giocare venerdì? Probabilmente no, penso che resterò fuori per tutto il prosieguo della stagione per poi avere anch’io il mio ritorno mediatico (commercial comeback – ndr)». Inutile soffermarsi sul chiaro riferimento a D-Rose.

In seguito su twitter ha espresso il desiderio che la si finisse di costruire storie su questo argomento: quanto detto in precedenza non aveva niente a che vedere infatti con le sfortunate vicissitudini della stella dei Bulls. Ah sì DeMarcus? Ma che bisogno c’era??

E in effetti “Ma che bisogno c’era?” sono quattro parole che suonano piuttosto familiari al Boogie. Che bisogno c’era DeMarcus di avere una colluttazione sul pulmino della scuola di ritorno da una partita durante gli anni dell’high school a Birmingham con un membro del consiglio di facoltà?

Che bisogno c’era di cercare un regolamento sommario di conti col telecronista ed ex-giocatore Spurs Sean Elliott, aspettando che finisse lo show post-partita, solo perchè durante la telecronaca si era permesso di “consigliare” alla stella in erba dei Kings di non fare trash talking con Duncan, ché alla lunga non paga?

Perché le continue polemiche in pubblico con Westphal e Keith Smart? Sono tantissime ormai le volte in cui, durante la sua giovane carriera, si è sentito appellare con lo spiacevole termine “thug”, teppista. Come sempre succede in questi casi, chi lo conosce veramente assicura che non si tratta affatto di cattivo ragazzo. Cousins mostra da sempre una virtuosa propensione al sociale, specie per quanto concerne l’aiuto ai bambini.

Viene da una famiglia di educatori, modesta ma solida. E sa benissimo che anche se adesso è milionario, tutto questo non durerà. Ma gli interrogativi restano: c’è da fidarsi di uno come Boogie? Possiamo ragionevolmente credere ai buoni propositi che si prefigge di raggiungere uno che a distanza di meno di 7 giorni si è reso protagonista di due episodi, come quelli osservati alla fine di novembre contro i Clippers, che definire puerili è dir poco?

Cousins infatti dopo aver mandato corto il tiro della vittoria allo Staples ed aver perso la partita per 103 a 102, lamentando non si sa bene quali torti arbitrali – o forse semplicemente astrali, si è precipitato immediatamente ad impedire al compagno Isaiah Thomas di stringere la mano a quello che con ogni probabilità per il piccolo grande uomo dei Kings rappresenta un punto di riferimento, se non proprio un modello nel mondo del basket, ovvero Chris Paul.

Non contento della generale ilarità suscitata da un gesto che ai più è sembrato semplicemente ridicolo, immaturo, finanche irrispettoso ma che nella sua testa nasceva come un monito da lanciare agli avversari circa l’alto tasso di testosterone di questa edizione dei Kings, ha visto bene di rifarlo, sempre contro i Clippers nella partita successiva (perchè Boogie??).

Questa volta è stato J.J. Redick a pensare ingenuamente di risolvere la diatriba andando lui, per primo, ad offrire la mano a DeMarcus in segno di distensione. Niente. Anche a questo giro non siamo in vena di convenevoli. Il grande capo non approva.

Se poi a condotte tanto energiche quanto inopinate seguisse almeno qualche straccio di risultato, anche i più convinti fra i moralisti potrebbero chiudere un occhio. Purtroppo nonostante i grandi plausi e i meritati elogi rivolti fin qui al numero 15, siamo a 5 vinte e 13 perse. Segno inequivocabile che al deciso passo avanti fatto dal giocatore in termini di presenza, leadership e impatto sulla gara dal punto di vista della produzione offensiva non si è accompagnato un avanzamento almeno equivalente nei risultati di squadra.

I Kings erano chiamati quest’anno, anche in ragione del cambio di coach, a un deciso miglioramento nel rating difensivo, dopo essersi classificati in sequenza al 20°, 28° e 29° posto nella lega per punti concessi agli avversari ogni 100 possessi negli ultimi tre anni (i primi NBA di Cousins). In questa stagione Sacramento è venticinquesima con 104.7 punti concessi ogni 100 possessi. E Cousins non è affatto estraneo alla reiterazione nel tempo di questa antipatica tendenza.

L’inquietante non belligeranza che mostra nelle transizioni difensive è irritante. Dopo un tiro sbagliato o un gioco in cui, pur ritenendo di dover essere coinvolto, non ha ricevuto palla, non si preoccupa mai di tornare a difendere il proprio canestro. Piuttosto perde tempo a discutere con gli arbitri, a imprecare contro se stesso o, più frequentemente, in direzione del cielo. Secondo mysynergysports.com, i Kings sono penultimi con 1.21 punti concessi per gioco (points per play) nelle transizioni avversarie. Come se non bastasse occupano la stessa, non invidiabile, posizione nei punti concessi in post-up (0.95 per gioco).

Di fronte a quest’ultima impietosa statistica DeMarcus non può davvero nascondersi. Il pitturato è il suo ufficio, anche se tende con troppa facilità a concederlo in comodato d’uso ai compagni di reparto per via dei falli.

Da quando è professionista, nessuno è uscito più volte di lui per raggiunto limite di falli. Non è un giocatore violento e neppure cattivo. Le sue innegabili deficienze sono dovute a una curiosa mescolanza di cattivo posizionamento ed effort insufficiente. Non lo trovi mai piegato sulle gambe. E’ sempre in ritardo nell’occupare la posizione del campo che si conviene allo schema difensivo in atto.

Non ha una piena comprensione di quello che fanno gli altri sul parquet, né è in grado di capire il senso delle rotazioni o prevedere in alcun modo dove andrà a collocarsi il diretto avversario. Tutto questo lo costringe a compiere una serie di sprint improvvisi, nel tentativo disperato di recuperare la posizione. Difficilmente però ha successo in questa operazione dal momento che è molto probabile che venga preso in controtempo da avversari che in genere sono più agili di lui.

Dove negli anni precedenti si sono visti i suoi limiti più evidenti è nella difesa sul pick & roll. Alcune delle scelte di cui si è reso protagonista sono state immortalate nei libri di testo come esempio di ciò che dev’essere obbligatoriamente evitato: uscite forti sul bloccante in situazioni in cui non riceverebbe mai palla con conseguente autostrada verso il canestro lasciata al palleggiatore, linee di penetrazione chiuse con pochissima convinzione, occupazione di zone del campo del tutto ininfluenti ai fini dello svolgimento dell’azione.

Si è visto un po’ di tutto dalle parti della Sleep Train Arena. In questo inizio campionato però, va detto che, seppur modesto, qualche progresso in questo senso si è notato, soprattutto nelle ultime due uscite dopo l’infortunio, con Lakers e Jazz. Niente di tutto questo tuttavia impedisce ai Kings di continuare tranquillamente ad occupare lo spot numero 24 nella classifica dei punti per gioco concessi ai “rollanti” avversari (1.06).

Così come, in linea con gli anni passati, proseguono imperterriti nella loro opera di concessione di tiri spot-up comodi e facili corner 3s, oggi più che mai indice di qualità nella valutazione di un attacco NBA. Comunque sia, record di squadra a parte (per quello c’è ancora da lavorare e molto), la scalata di Boogie all’Olimpo NBA è definitivamente iniziata, dopo qualche stagione di apatico galleggiamento. I suoi numeri sono più che rispettabili.

La dedizione al progetto per ora tiene. La convinzione nei propri mezzi non è mai mancata. Dopo il colpo basso inflittogli sotto la cintura dal rookie di Atlanta Dennis Schroder durante un’azione di gioco, ha subito provveduto a rimarcare il concetto: «Si vede che è l’unico modo che hanno per fermarmi».

Parole che fanno pensare ad un provvidenziale raggiungimento della maturità? Non proprio, non più di qualche azione dopo, ha tirato giù con una spinta Al Horford, andando incontro a un flagrant foul, derubricato poi a semplice personale.

Se la calma è la virtù dei forti, Cousins è forte per davvero ma non è calmo. Come al solito, incarna l’eccezione. Rappresenta l’anomalia che minaccia il sistema. Il lampo di talento.

Non fidatevi di Boogie. Però, se potete, dategli una possibilità. Di sicuro vi farà divertire.

 

2 thoughts on “A ritmo di Boogie

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