Il Re è nudo, come non lo è mai stato nelle ultime trionfali stagioni. LeBron James e i suoi Miami Heat sembrano aver perso l’alone di invincibilità che li ha accompagnati soprattutto nello scorso campionato, quando il Prescelto e la sua armata davano l’impressione di non conoscere ostacoli sul loro cammino verso il loro secondo titolo consecutivo.

La realtà dei fatti pare però ben diversa, a una manciata di partite dalla stagione regolare. Lo score delle ultime dodici gare giocate è una sentenza: 5 vittorie a fronte di ben 7 sconfitte.

Il calo repentino dei Pacers, entrati a loro volta in una spirale negativa che sembra aver risucchiato la splendida schiacciasassi ammirata fino all’All Star Game, ha contribuito a mascherare nei limiti del possibile il passaggio a vuoto degli uomini di South Beach, che con due scontri diretti a disposizione avranno la possibilità di scippare Indiana della vetta della Eastern Conference.

Ma, se ci affacciamo sulla sponda opposta dell’Oceano e diamo uno sguardo in casa di chi punterà ad essere protagonista dai primi di giugno in poi, ci accorgiamo che i numeri recenti ci parlano di una vera e propria crisi da parte degli Heat.

Con gli Spurs che volano sulle ali di una striscia di 14 successi consecutivi, i Thunder che inseguono a un’incollatura e i Clippers che aspettavano solo la guida di un allenatore come Rivers per esprimersi al massimo delle loro potenzialità, il parziale delle ultime gare assume tonalità che dalle parti di South Beach si auguravano di non vedere

Certo, dopo tre anni al top (due dei quali coronati con la vittoria del titolo), è fisiologico concedere qualcosa alla gestione delle energie, capitolo fondamentale per una squadra di veterani in una stagione che, per chi arriva fino in fondo, prevede più di cento partite in calendario.

Gli Heat però non sembrano più in grado di inserire il pilota automatico a piacimento, e qualche crepa inizia a emergere qua e là in quella che sembrava una macchina da pallacanestro pressoché perfetta. Sono lontani i tempi della striscia record di 27 vittorie consecutive, quando la squadra di coach Spolestra poteva permettersi di andare sotto di quasi 30 punti (27, per la precisione) a Cleveland per poi rimontare furiosamente e andare a prendersi il successo.

Gli Heat non riescono più a cambiare la loro vita con un clic, e spesso la rilassatezza determinata dall’eccessiva confidenza nelle proprie qualità ha portato a battute d’arresto o a vittorie ben più risicate del dovuto. Emblematico in questo senso il successo ottenuto lunedì contro Portland: un +17 con nove minuti da giocare si è tramutato in un finale thrilling, nel quale ci sono voluti un canestro decisivo di James e una stoppata ancor più importante di Bosh per portare a casa la vittoria con un margine di soli due punti.

La difesa, vanto del coaching staff di Miami e arma decisiva nella doppietta vincente delle ultime due stagioni, sembra aver perso colpi: agli avversari vengono concessi 3.5 punti in più a partita (98,5 contro i 95 dello scorso anno, dato che tradotto in punti per cento possessi diventa 106,1 contro i 103,7 della passata stagione).

La minore intensità difensiva toglie agli Heat l’arma impropria del contropiede, miniera d’oro di punti facili per i superatleti di South Beach, intaccando così anche la produzione offensiva e costringendo spesso e volentieri ad attacchi a difesa schierata che, numeri alla mano, non si stanno rivelando molto efficaci negli ultimi tempi (sempre analizzando le ultime dodici gare, otto di queste si sono chiuse sotto i 100 punti segnati e con una media di quasi 15 palle perse a sera).

Uno dei principali indiziati del calo di intensità difensiva è proprio lui, King James, cinque volte inserito nel miglior quintetto difensivo Nba ma che, in questa stagione, viaggia spesso a cavallo della sottile linea che separa la gestione delle energie da un atteggiamento sufficiente e ai limite dell’irritante.

Le sensazioni sono confortate anche dalle cifre, che sono impietose nei confronti del numero 6: con lui in campo gli avversari segnano 107.4 punti per possesso, mentre senza di lui gli Heat ne concedono 103,2, con una percentuale effettiva al tiro che scende dal 51,7 al 49,2%.  Non un dato lusinghiero per un giocatore che punta apertamente a coronare la carriera anche con il premio di miglior difensore dell’anno.

A LeBron va però dato atto di aver dato la scossa alla truppa in quello che potrebbe essere uno dei momenti cruciali della stagione degli Heat. Arrivare davanti ai Pacers è vitale per garantirsi il fattore campo nella quanto mai annunciata rivincita della scorsa finale di Conference e James, da leader ormai consumato, ha scosso la truppa con frasi forti: “È un momento difficile e tutto quello che riusciamo a fare è trovare scuse per giustificarci. È frustrante, dobbiamo capire come fare a tornare tutti sulla stessa lunghezza d’onda e a rimettere sotto il nostro controllo le cose che sappiamo fare ma che al momento ci sfuggono. I cambi di quintetto? Un’altra scusa: la ricetta è semplice, chi va in campo deve dare il massimo ed essere produttivo”.

Alla parole sono seguiti i fatti, nello specifico una prestazione da 32 punti con la quale il Prescelto ha trascinato Miami al successo contro i Blazers, un’iniezione di fiducia che potrebbe essere un ottimo viatico in vista dello scontro diretto in programma stanotte alla Fieldhouse.

Dalla vittoria su Portland sono comunque emerse, al di là dell’ottima prova di James, alcune indicazioni interessanti. Chris Bosh continua a essere assai sottovalutato, perché il suo impatto sta diventando sempre più decisivo col trascorrere delle stagioni. Il buon Chris non lo ammetterà mai, ma allo stato attuale sembra essere lui una delle chiavi di volta per il rendimento della squadra.

In seconda analisi, uno dei simboli di questi Miami Heat porta il nome di un insospettabile, che a 35 anni sta riscoprendo una seconda giovinezza giocando come mai prima in vita sua: Chris Andersen è energia allo stato puro in entrambe le metà campo, e coach Spoelstra anche nella gara di lunedì si è affidato all’impatto di Birdman per portare l’inerzia dalla parte della sua squadra.

La parentesi su Andersen permette di aprirne un’altra, che riguarda una tematica di mercato. Non più tardi di un anno e spiccioli fa, gli Heat si rinforzavano in maniera decisiva per la loro corsa vincente aggiungendo proprio The Birdman al loro roster.

Una presa eccellente da parte di Pat Riley, che riuscì ad anticipare la concorrenza (non molto folta, a dire la verità) per accaparrarsi i servigi dell’ex Denver. Quest’anno, invece, la free agency di metà stagione ha riservato soltanto due di picche alla franchigia di South Beach: i vari Granger e Butler hanno declinato le offerte del Michael Douglas della palla a spicchi, preferendo sposare i progetti dei Clippers e dei Thunder.

L’appeal degli Heat sembra aver subìto un duro colpo, non fosse altro per la situazione di incertezza relativa al futuro a breve termine della società: in attesa di sapere come andrà a finire l’assalto allo storico Three-peat, ci sarà da capire quale strada prenderanno James, Wade e Bosh (tutti e tre muniti di early termination option nei rispettivi contratti), con la decisione del primo (se siete stati vittima di un dejà-vu, sappiate che potreste non essere soli) che detterà i piani futuri della franchigia, oltre a scatenare un effetto domino su tutto il mercato estivo.

Il “no, grazie” dei free agent di grido può essere un ulteriore incentivo per la concorrenza: due veterani in grado di permettere un salto di qualità a qualsiasi contender hanno evidentemente pensato che la via più facile per arrivare all’agognato anello non passi più da Miami. Tutto da dimostrare, ma un motivo in più per convincersi che per James e soci sollevare al cielo per la terza volta di fila il Larry O’Brien Trophy sarà come scalare un Ottomila con un’esigua scorta di ossigeno.

Lo scorso anno Golia-LeBron sembrava destinato a fare un sol boccone della concorrenza: a giugno ha festeggiato lui, ma se l’è dovuta sudare più che mai al termine di due mesi di playoff estenuanti. Quest’anno, qualche inciampo di troppo potrebbe dare ancora più coraggio alla concorrenza.

Alessandro Magno dovette arrendersi a una febbre, che ne spezzò il sogno di un impero universale: LeBron non vuol fermarsi a Bibilonia, ma per scrivere la più grande pagina di storia della sua carriera ci vorrà un’impresa che potrebbe davvero consacrarlo come uno dei più grandi di sempre.

2 thoughts on “Heat Check: il Re è nudo?

  1. parlo da non-tifoso di miami: anche l’anno scorso, al netto di strisce positive, si parlava di crisi degli heat, e di quante difficoltà avessero, e della improbabilità di un loro repeat (ve lo assicuro)… sentivo dire che fossero peggio dell’anno precedente, che erano in difficoltà, che non fossero all’altezza, e poi è andata a finire come mi aspettavo, e come, comunque, molti si aspettavano…
    mi aspetto la stessa cosa anche quest’anno: se lebron non si infortuna, è inarrestabile. e lo dimostrerà ancora… non gliela sto menando, è solo una constatazione, quando la palla scotta, si eleva a un altro livello, l’ha già dimostrato molte volte negli ultimi anni, e fidatevi, non mancherà neanche a questo giro…
    opinione mia: tutte le chiacchiere fatte a febbraio e marzo sugli heat, stanno a zero. lebron è il migliore, con buona pace di george e durant, e lo dimostrerà ancora una volta…

  2. Rimango dell’idea che la stagione regolare adesso non conta più niente.
    Stanno viaggiando a velocità base…niente di più…
    Adesso si tira il fiato e poi i giochi saranno nei PO…
    Comunque a est…finale Indiana – Miami…
    l’incognita sono i Bulls ma senza una stella è difficile…
    Però spero che l’anello vada ad Ovest…

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