Chiudere la stagione regolare con 54 vinte e 28 perse (lo stesso record dei Miami Heat Campioni in carica) deve essere una bella soddisfazione per uno come Kevin McHale, che in numerose occasioni era stato tacciato d’essere un allenatore da piccolo cabotaggio, da minimo sindacale e poco più.

Invece, con una squadra rivoluzionata dalla presenza di Dwight Howard e incrinata dalla difficile convivenza di Superman con Omer Asik, è riuscito a superare quota 50 vittorie e a farlo con una squadra in crescendo, che non è partita forte spinta dall’entusiasmo per poi spegnersi alle prime difficoltà, ma che è viceversa cresciuta con il passare delle settimane e ha spiccato il volo dopo l’All Star Game, segno che McHale non è rimasto con le mani in mano, ma ha lavorato con il gruppo, forgiandolo.

Dopo una carriera tutta in maglia Celtics che l’ha condotto a tre titoli NBA, un premio di Difensore dell’Anno, un primo quintetto NBA e sette All Star Game, l’ala nativa del Minnesota non pensava certo di diventare un allenatore.

Quando appese le scarpe al chiodo, Kevin andò a lavorare per i Timberwolves, scalando la piramide dirigenziale e approdando, nel 1995, alla scrivania di Presidente della squadra.

Dopo anni di sodalizio con Flip Saunders (che aveva giocato con lui all’università del Minnesota), l’avvicendò in panchina, chiudendo quel che rimaneva della stagione 2004-05 con un parziale di 19-12.
Kevin però non era interessato a continuare a ricoprire il doppio incarico, così assunse Dwane Casey e ritornò dietro ad una scrivania.

Nel 2008 i T-Wolves licenziarono Randy Wittman e Kevin McHale si trovò nuovamente a rimpiazzare l’allenatore che aveva assunto, e lasciò definitivamente il suo ruolo dirigenziale per guidare la squadra dalla panchina, come richiedeva l’ultimatum del proprietario, Glen Taylor: “O li alleni tu, o te ne vai”.

Kevin si era reso conto di non poter continuare a guidare la squadra con i metodi che avevano contraddistinto la sua gestione congiunta con Saunders, quando certe linee di demarcazione tra staff tecnico e dirigenza erano ignorate e McHale si era abituato, da Presidente, a lavorare con i suoi giocatori di front line in allenamento.

Questo passaggio durò solo pochi mesi, perché a fine stagione Taylor decise di chiudere il rapporto con il nativo di Hibbing (sostituendolo con l’odiato Kurt Rambis), ma ormai il demone della panchina si era impossessato di lui, nonostante la sua squadra avesse chiuso con un bilancio di 24 vinte e 58 perse (complici infortuni assortiti a Telfair, Jefferson, Foye ed altri).

McHale continuava a smentire e a dichiararsi poco interessato a una carriera da allenatore, ma la verità è che il contatto diretto con le partite, con la routine del viaggio, avevano risvegliato la sua fame di competizione.

Dopo una stagione passata dietro ai microfoni di TNT e NBA TV, McHale trovò una posto da capo-allenatore a Houston, andando a sostituire Rick Adelman (che ha appena terminato la sua carriera proprio a Minneapolis) nel tentativo di ricostruire i Rockets seguendo la filosofia del GM Daryl Morey.

Sappiamo già com’è andata a finire: la dirigenza dei Rockets si è mossa con tempismo e audacia, arricchendo il roster con Jeremy Lin, Omer Asik, James Harden, Chandler Parsons e Dwight Howard.

L’ultima stagione, segnata dall’arrivo del Barba, era stata entusiasmante, e si temeva che l’aggiunta di Howard potesse guastare l’ambiente e rovinare la chimica offensiva della squadra, votata al run-and-gun.

Come sempre, quando si mette insieme un nuovo gruppo (e questi Rockets lo sono non solamente per l’aggiunta di Howard, ma perché Chandler Parsons, quarto anno NBA, è il giocatore che è a roster da più tempo) occorre pazienza.

In effetti, nella prima parte di stagione i Rockets sono apparsi ingolfati (prima dalla presenza contemporanea di Asik e Dwight, poi dalla pretesa di Howard d’ottenere ricezioni statiche in post basso), con una partenza 8-5 e un mese di dicembre chiuso con un parziale di 8-8, ma si sono gradualmente riscossi, hanno scoperto come usare Omar Casspi e Terrence Jones, ritrovando ritmo e fiducia.

A qualche mese di distanza da quei momenti d’incertezza, Houston chiude la stagione con 54 partite vinte ed entra ai Playoff con il vantaggio del fattore campo al primo turno (l’avversaria sarà Portland, come nel 2009, quando vinsero i Rockets in sei partite) e con concrete chance di fare rumore.

Vincere il titolo sarà piuttosto difficile (eufemismo!), perché a Ovest occorre giocare tre serie perfette solo per arrivare in Finale, ma i Rockets potranno sicuramente maturare molto e mettere a fuoco quelli che sono i punti deboli della squadra.

Oltretutto, hanno chiuso la stagione regolare “sweepando” la serie con i San Antonio Spurs, che evidentemente li soffrono (il 21% delle loro sconfitte stagionali è arrivato contro Houston); sono in rotta di collisione al secondo turno, e non si possono escludere sorprese clamorose (anche se in questo quarto confronto di stagione regolare, Popovich ha fatto riposare i titolari e c’è mancato poco che le riserve vincessero la partita).

I Rockets hanno costruito una squadra a trazione anteriore, che dopo l’All Star Game ha iniziato a tirare meglio da tre e ai liberi, che ruba più palloni rispetto a prima e ne perde di meno, e che, se segnava molto (105 punti) già nei primi tre mesi di stagione, dopo la sosta per la partita delle stelle è letteralmente esplosa, arrivando a segnare 111.7 punti di media.

Cose che capitano, quando in squadra ci sono Harden, Beverley, Howard e Parsons, ma soprattutto, quando un allenatore ha l’intelligenza di cavalcare i punti di forza d’un gruppo e di far capire a Dwight Howard che in questa squadra potrà certamente avere qualche ricezione statica, ma che i Rockets sono enormemente più pericolosi quando il suo ruolo offensivo consiste nell’essere un roller, cosa che, tra l’altro, sa fare come pochi.

Tuttavia, nonostante il grande finale di stagione, i Rockets arrivano ai Playoff a fari spenti. Come detto, essere ad Ovest non li aiuta certamente, ma c’è dell’altro, a partire dai dubbi che sussistono sui limiti di giocatori e, in ultima istanza, anche su chi li guida.

Sul carattere e sulle lacune tecniche di Dwight Howard si è detto tanto che non vale la pena di soffermarsi troppo, ma anche Harden si è ricavato la nomea di grandissimo giocatore offensivo che si rifiuta di partecipare alla fase difensiva. Così anche Lin, ha mostrato alcuni limiti in termini di gestione della squadra, mentre Chandler Parsons è sostanzialmente “unproven”.

A guidare questo gruppo pieno di punti interrogativi, c’è un Kevin McHale che è ritenuto da più parti un allenatore abbastanza modesto; serviranno dei grandi Playoff per mutare questa percezione.

Anche il modo nel quale i Rockets hanno toccato quota 54 vittorie non fa che consolidare l’impressione che McHale sia un allenatore bravo ma non bravissimo: ha cavalcato con sapienza i punti forti del suo roster ma non ha limato i difetti del gruppo, limitandosi a nasconderli.

Questi Rockets non saranno fermati da una difesa capace di “schienare” Harden e di bagnare le polveri ai tiratori, ma da un attacco capace di sfruttare le cospicue brecce presenti nel muro difensivo di Houston.

È vero che Houston segna 108 punti su 100 possessi, ma subisce anche 103 punti su 100 possessi, e quindi, se, come dice Jalen Rose, nei Playoff è essenziale avere grande capacità di fuoco, occorre anche e soprattutto avere una difesa che sappia sabotare l’attacco avversario e che sia capace di tenere la squadra in linea di galleggiamento qualora il motore offensivo dovesse girare a vuoto.

Con 98.8 possessi su 48 minuti, i Rockets sono una fuoriserie lanciata ad alta velocità, ma pensiamo che il loro assetto potrà avere problemi quando si troveranno ad affrontare il terreno accidentato dei Playoff, posto che, è bene ripeterlo, stiamo parlando di una squadra che in singola serie può battere chiunque.

I Rockets hanno una serie di buoni o buonissimi difensori potenziali, che però non traducono il loro valore sul campo.

Chandler Parsons, Beverley e James Harden sono giocatori potenzialmente devastanti in difesa, ma se Harden continuerà a difendere con la verve di un sagomato di cartone nel tentativo di risparmiarsi per l’attacco, contribuirà a rendere vulnerabile la difesa di Houston. In una serie al meglio di sette, gli avversari non tarderanno a capire come sfruttare questa debolezza per ottenere punti facili.

È interessante notare come McHale, forte di una dirigenza attentissima agli sviluppi della sabermetrica, abbia impostato una squadra che prende il 39% dei suoi tiri da sotto canestro e il 24% da tre punti, in posizione frontale, due zone del campo dalle quali i Rockets tirano con percentuali superiori alla media NBA; segno che dietro ad un gioco apparentemente molto libero, ci sono invece scelte precise e un disegno tecnico che vuole sfruttare al meglio le due qualità per le quali questa squadra si distingue: un lungo dominante e una serie di esterni dalle qualità balistiche eccelse, che combinano il tiro con grandi qualità atletiche che consentono di portare la palla fino al ferro.

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Nel peggiore degli scenari questi Rockets si sarebbero potuti trasformare in un “jump shooting team”, ma McHale è stato bravo a evitare questo rischio senza sacrificare troppo gli istinti dei suoi giocatori, aiutandoli a mantenere una certa autonomia ma a rispettare delle linee guida tecniche (la famosa Moreyball) che si sono dimostrate vincenti.

Certo, esistono alcune problematiche che i Rockets dovranno alla fine affrontare: la tendenza di Harden a cercare il fallo in modo insistente spesso lo porta a cattive conclusioni o a palle perse, e Howard torna di tanto in tanto a chiedere la palla in post basso, dimenticando tutto quel che gli è stato detto riguardo alla sua efficacia con le ricezioni dinamiche.

McHale fin qui ha fatto benissimo: ha trovato la rotazione giusta (anche se lui vorrebbe scendere a una rotazione a nove uomini, ma ha voluto nel frattempo gestire il minutaggio delle sue stelle per farle arrivare con le gambe fresche ai Playoff) con Parsons, Howard, Jones, Harden e uno tra Lin (che è alle prese con fastidiosi problemi alla schiena) e Beverley; sta magnificando le qualità offensive dei suoi giocatori, e contribuendo a nascondere una certa propensione a non difendere che potrebbe essere pagata cara quando il gioco si farà duro, ma per il momento può vantare una squadra che ha migliorato il proprio record di nove vittorie rispetto a un anno fa, e che è sostanzialmente ancora giovane.

Non sono degli home run hitters” ha detto dei suoi, facendo riferimento ai battitori del Baseball. “a volte tentano di colpire la palla quando non devono. Sono fatti così, ma non gli chiederò di smorzare la battuta”.

Kevin McHale è forse la persona più indicata per gestire un gruppo ridanciano e allegro, che si è adeguato a meraviglia alla personalità esuberante (e forse anche un po’ infantile) di Dwight Howard, visto che, dietro all’aria da duro coltivata ai tempi dei Celtics, si cela un giocatore che faceva infuriare Larry Bird per quanto poco prendesse sul serio gli allenamenti e per l’atteggiamento tranquillo e rilassato che tanto aveva stupito Sebastian Telfair ai tempi dei Wolves.

McHale, rispetto ad altri allenatori più quotati, capisce forse meglio la psicologia di un gruppo per il quale il basket è per prima cosa divertimento. Fin qui, non ha forzato la mano e potrebbe anche trattarsi di una mossa calcolata; quando verranno i Playoff, la difesa dovrà per forza di cose crescere, mentre il numero di palle perse dovrà diminuire, viceversa Houston farà poca strada, e in tal caso McHale avrà dei solidi argomenti a disposizione per convincere i suoi giocatori che è bene divertirsi, ma occorre anche badare ad alcune cosucce come le rotazioni difensive.

È la persona giusta per comunicare queste esigenze tattiche alla sua squadra, viste le affinità caratteriali che lo legano ai suoi giocatori (i reporter di Boston lo chiamavano 411 perché, come il numero telefonico informativo statunitense, bastava chiamarlo per strappare un’intervista), ma, e la sua storia cestistica lo dimostra, ha anche saputo coniugare il divertimento con la disciplina e con la giusta concentrazione.

Lo amo come un padre” ha detto di lui Patrick Beverley, commentando la nomina di McHale ad Allenatore del Mese. “Ha giocato, sa che cosa sta succedendo in campo e gli puoi parlare”.

Per poter giudicare il lavoro di McHale dovremo quindi attendere il 2015, ma quel che è certo è che fino ad ora Kevin ha saputo gestire a meraviglia un gruppo complicato, ricco di stelle e di problematiche (da Asik separato in casa a Parsons con il suo incombente rinnovo) senza lasciare che danneggiassero lo spirito di gruppo e l’atteggiamento positivo con il quale i Rockets giocano (quasi) ogni partita.

Da un punto di vista tecnico c’è ancora tantissimo lavoro da fare (lasciando per un secondo da parte la difesa, potremmo parlare del modo in cui vengono occupati gli angoli o del numero eccessivo di palle perse) e McHale sta usando un mix di ironia e rimproveri per cercare di far passare il messaggio ai giocatori.

Il suo contratto per l’anno prossimo non è garantito, nel senso che esiste un’opzione di Houston ma al momento, dice Kevin, non ci sono state discussioni in merito, tuttavia immaginiamo che Daryl Morey ci abbia fatto più di un pensiero, perché trovare un allenatore capace di gestire in modo così morbido una transizione non facile come quella che hanno attraversato i Rockets non è scontato e non siamo sicuri che un allenatore più volitivo avrebbe ottenuto risultati migliori.

Tutto comincia da coach McHale” dice Chandler Parsons “è così una brava persona che ti viene voglia di giocare duro per lui”.

Visto e considerato che Parsons sarà free agent tra non più di un anno, anche questo fa pendere la bilancia in favore di una lunga permanenza di Kevin in Texas, alla faccia dei detrattori.

 

One thought on “Kevin McHale, il player’s coach

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