E’ di pochi giorni fa la notizia delle dimissioni di Mike D’Antoni dall’incarico di head coach dei Los Angeles Lakers.
L’allenatore chiude la sua avventura californiana con un record di 67 vittorie e 87 sconfitte (27-55 nell’ultima stagione), tutt’altro che in linea con gli alti standard ai quali è abituata la dirigenza giallo-viola.
D’Antoni era successo a Mike Brown nel novembre del 2012, firmando un contratto triennale (a 4 milioni a stagione), anche se il suo arrivo venne accompagnato da un’aura di scetticismo da parte di media e tifosi.
Le perplessità maggiori sull’ex Knick, si aggiravano soprattutto attorno all’applicazione del suo sistema di gioco “fast paced”, ad un roster composto da giocatori con caratteristiche diametralmente opposte a quelle richieste, e con quattro over 30 nel solo quintetto base.
Lo scetticismo e le perplessità (complici gli innumerevoli infortuni) alla fine si sono rivelate fondate, con grande rammarico per coloro che speravano di replicare i risultati del “run & gun” targato Phoenix Suns, e prima ancora della Pallacanestro Treviso.
Sì perché è proprio in Italia che D’Antoni perfeziona la sua idea di basket, in seguito ad una sfavillante carriera da giocatore a Milano.
Ma il suo legame con il Bel Paese ha origini ben più profonde.
Torniamo indietro, esattamente al 1909: siamo nel mezzo del più grande flusso di emigrazione italiana verso gli Stati Uniti.
Tra i numerosi immigrati giunti ad Ellis Island c’è tale Andrea D’Antoni, il quale, non conoscendo la lingua si è fatto appuntare su un fogliettino la sua destinazione: McComas, West Virginia.
Qui trova lavoro in miniera, guadagnando 65 cent per ogni cinque tonnellate di carbone estratto, e nel frattempo sposa Julia dalla quale ha quattro figli.
Dopo dieci anni di risparmi decide di mettersi in proprio, ed apre una drogheria nella cittadina di Mullens. Ma sono gli anni della grande depressione, gli affari non vanno a gonfie vele e in più Andrea vede morire sua moglie a soli 36 anni.
Riesce a crescere da solo i quattro figli, il terzo dei quali, Luigi, dimostra sin da piccolo una discreta propensione per la pallacanestro.
Diventa la point guard titolare della Mullens High School e in seguito del Concord College dove si laurea in biologia.
Gioca qualche anno tra i professionisti a Bluefield, prima di tornare a casa nel 1937 e allenare la Mullens High, che conduce alla conquista di un campionato statale e oltre 450 vittorie durante la sua tenuta.
Lewis (ormai così chiamato da tutti), prende questo gruppo di ragazzi di campagna “undersized” e li trasforma in una squadra di corridori e abili passatori, e ai quali dà un’unica direttiva: attaccare gli avversari prima che riescano a schierare la propria difesa.
E’ uno stile di gioco in qualche modo innovativo, in un’epoca priva di shot clock e propensa al gioco focalizzato sui lunghi.
Sposa Betty Jo, dalla quale ha due figli, Kathy e Dan, e l’8 maggio del 1951 arriva il terzo: Michael.
La famiglia D’Antoni si riunisce ogni sera per praticare giochi di ogni tipo: dal Monopoli, al Bridge, al gin rummy, e a fine serata il nome del vincitore viene affisso sul frigorifero fino al giorno seguente.
L’obiettivo dei coniugi D’Antoni non è però improntato alla vittoria, bensì alla competizione e alla cultura della sconfitta. Sono queste le chiavi del successo che trasmettono ai propri figli.
Nel frattempo arriva il quarto figlio, Mark, mentre Dan entra nello starting five della Marshall University e Mike diviene la stella della Mullens High School, attirando le attenzioni di diversi college.
Early years
Mike sceglie di giocare per i Thundering Herd della Marshall, l’università di suo fratello Dan, che intanto è entrato a far parte del coaching staff e lo allena durante il suo anno da freshman.
La squadra gioca una pallacanestro molto veloce, che mette in risalto le qualità del giovane playmaker, il quale mostra già un intelligenza cestistica fuori dal comune: “E’ così abile con la palla che potrebbe ammiccare a una cheerleader mentre serve un compagno libero sotto canestro”, scrive di lui William Reed di Sports Illustrated nel 1972.
Si laurea nel 1973, detenendo il record di assist (659) dell’università e si dichiara eleggibile per il Draft NBA dello stesso anno, dove viene selezionato alla posizione numero 20 del secondo round dai Kansas City-Omaha Kings.
Viene inserito nel secondo quintetto matricole, ma nei due anni successivi pur distinguendosi per stile ed eleganza di gioco, trova poco spazio, e dopo una stagione nell’ABA a St. Louis ed una brevissima parentesi con i San Antonio Spurs, decide di tentare l’avventura europea.
Arsène Lupin
Così nel 1977 si lega all’Olimpia Milano, un matrimonio che durerà 12 anni e sarà costellato da innumerevoli successi.
Durante la sua esperienza italiana si guadagna il soprannome di “Arsène Lupin” (l’elegante ladro gentiluomo nato dalla penna di Maurice Leblanc) per la sua grande abilità nel rubar palla, è inoltre un passatore sopraffino, ha una visione di gioco a 360°, ed è un autentico “floor leader”.
Con Dan Peterson in panchina, D’Antoni in regia e Dino Meneghin sotto le plance (e l’arrivo di Bob McAdoo), l’Olimpia conquista tutto: 5 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Italia, 1 coppa Korac, 1 Coppa delle Coppe e 1 coppa Intercontinentale.
Sono senza dubbio la squadra italiana più forte degli anni ’80, e Mike (date le origini italiane) nel 1989 è tra gli azzurri che partoni per gli Europei di Zagabria, dove perdono di tre in semifinale contro la Jugoslavia (poi campione) di Dražen Petrović.
Nel 1990 viene eletto miglior playmaker nella storia del campionato italiano, e subito dopo si ritira dalla pallacanestro giocata.
Ma ha il desiderio di seguire le orme di papà Lewis, vuole allenare, e proprio Milano gli concede l’opportunità: diventa l’head coach dell’Olimpia.
Al primo anno da allenatore inizia ad implementare il suo concetto di gioco tutta corsa, e porta la squadra fino alla finale scudetto persa contro Caserta. Nelle stagioni seguenti vince una Coppa Korac, oltre ad altri buoni piazzamenti.
Nel 1994 si trasferisce a Treviso, dove perfeziona il suo attacco “uptempo”: velocità, pick & roll e lunghi atipici che si aprono sul perimetro per tirare, sono questi gli ingredienti del suo basket.
Lupin li guida alla conquista di una Coppa Italia, una Eurocup, e fino alla finale scudetto dove si arrendono alla Virtus. Scudetto che arriva due anni dopo ai danni della Fortitudo e insieme ad esso le sirene Statunitensi.
Il lavoro di D’Antoni non è passato inosservato dall’altra parte dell’oceano e nel 1997 accetta il posto da vice dei Denver Nuggets.
La stagione seguente è quella del lockout (il campionato è ridotto a sole 50 partite), viene nominato head coach, ma le cose non vanno come previsto e Denver termina con un record di 14 vittorie e 36 sconfitte.
Viene esonerato, e dopo un anno come scout per gli Spurs e uno come vice a Portland (2000-01), decide di tornare in Italia dove vince un altro scudetto con Treviso.
L’esperienza però dura una sola stagione, nel 2002 si unisce ai Phoenix Suns come vice di Frank Johnson.
Dopo 21 partite Johnson viene licenziato e Mike D’Antoni diventa capo allenatore. Chiama come assistant coach suo fratello Dan, che lo accompagnerà anche nelle seguenti esperienze.
Runnin’ & Gunnin’ in Arizona
I Suns, complici gli infortuni a Stoudemire e le partenze a gennaio di Hardaway e Marbury (che li lasciano di fatto senza una point guard titolare), terminano con un record molto negativo (29-53), ma nonostante ciò la dirigenza rinnova la fiducia al coach italo-americano e lo conferma alla guida della squadra.
Durante la off season, D’Antoni richiede espressamente un play di livello per poter sviluppare il suo gioco, e il GM Bryan Colangelo lo accontenta firmando il free agent Steve Nash, reduce dall’esperienza ai Mavs.
D’Antoni ha finalmente tutti i tasselli per poter mettere in pratica il suo mantra, quella che verrà poi definita la “Seven Seconds Offense” e renderà i Suns la squadra più spettacolare dell’NBA.
I concetti del suo sistema stravolgono tutti i dogmi della lega: utilizza un quintetto con Amar’e Stoudemire (ala forte pura) da centro, Shawn Marion da lungo aggiunto, due cecchini come Quentin Richardson e Joe Johnson (con Leandro Barbosa dal pino) oltre l’arco e Nash a dirigere l’orchestra.
Fast break, spaziature, pick&roll ossessivi, ritmi elevatissimi, tiro da 3, tutto ciò per cercare il primo tiro buono disponibile e senza dare punti di riferimento o possibilità alla difesa avversaria di organizzarsi.
Vederli giocare è uno spettacolo.
Durante i successivi quattro anni, i Suns registrano un record di 253 vittorie e 136 sconfitte, sono per tre volte il miglior attacco della lega, nel 2005-06 hanno la miglior stagione (62-20) nella storia della franchigia e vincono per quattro volte più di 50 partite.
Nel 2004-05 D’Antoni viene nominato “Coach of the Year”, e viene selezionato nello staff di Mike Krzyzewski che guiderà Team USA al bronzo dei Mondiali del 2006.
Nel suo stint in Arizona, riesce ad estrarre il meglio da ognuno dei suoi giocatori: Nash è per due volte consecutive MVP e guida per tre volte la lega negli assist, Stoudamire e Marion diventano All Stars e All NBA, Boris Diaw vince il premio come “Most Improved Player”, e Barbosa il “Sixth Man of the Year”.
Ma ai playoff perdono per due anni consecutivi alle finali di Conference (contro San Antonio e Dallas) e nei due successivi non vanno oltre il secondo round.
Così al termine della stagione 2007-08, D’Antoni si dimette, lascia i Suns da terzo allenatore più vincente della franchigia, e dopo aver rimesso Phoenix sulla mappa, trasformandola nella squadra più spettacolare del panorama cestistico americano.
The New York Debacle
Firma con i New York Knicks il 13 maggio del 2008, ai quali si lega per I successivi quattro anni.
Al Draft di giugno chiede espressamente al nuovo Presidente Donnie Walsh di selezionare Danilo Gallinari, che viene scelto alla posizione numero 6.
Ma sono anni difficili quelli nella Grande Mela: al primo anno Walsh manda via i due migliori giocatori, Zach Randolph e Jamal Crafword per liberare spazio salariale in vista della Free Agency 2010, con l’intento di firmare una superstar del calibro di James o Wade.
Ma la storia come è noto va diversamente, si formano i Big Three in South Florida e i Knicks “ripiegano” sull’ex pupillo di Mike: Amar’e Stoudamire.
Dopo due stagioni negative, D’Antoni ha finalmente un roster adeguato al suo run & gun, con il nuovo acquisto Raymond Felton e il rookie Landry Fields nel backcourt, Gallinari e Wilson Chandler sul perimetro e Stoudamire da pivot.
Amar’e gioca da MVP, e la squadra va, fino a quando la dirigenza blu-arancio decide di acquistare all’ All Star Break Carmelo Anthony. Nella trade con i Nuggets perdono Felton, Gallinari, Chandler e Mozgov, e con loro la chimica di squadra.
Subiscono un sonoro “sweep” dai Boston Celtics al primo round dei playoff, e non riescono mai a far girare l’attacco come vorrebbe il coach, che si becca tutte le critiche della stampa Newyorkese.
La stagione seguente, vede l’arrivo di Tyson Chandler e l’esplosione della “Linsanity”: con Jeremy Lin al timone (e Melo infortunato), D’Antoni riesce a far girare il suo attacco e i Knicks volano.
La magia però dura poco, Anthony rientra, e non riesce a coesistere con il giovane play, così la squadra perde le seguenti sette partite.
A marzo D’Antoni lascia New York in favore dell’assistant coach Mike Woodson, i Knicks verranno eliminati al primo round dei playoff da Miami.
ShowTime 2.0 ?
Il 12 Novembre 2012 inizia l’avventura con i Lakers.
Il suo arrivo lascia qualche dubbio a media e tifosi locali, i quali da una parte chiedevano a gran voce il ritorno di Phil Jackson, e dall’altra come detto in precedenza, nutrono diversi dubbi sull’applicazione del sistema di gioco D’Antoniano ad un roster privo di atletismo.
Al contrario, il presidente Jim Buss è sicuro della scelta intrapresa, e crede che con il nuovo coach e l’acquisto nella off season di Dwight Howard e Nash, i Losangelini possano puntare all’anello.
D’Antoni ha a disposizione un quintetto composto da cinque All Stars e due precedenti MVP, e ritrova il figliol prodigo Nash con il quale si augura di rivivere i fasti dell’esperienza in Arizona.
Alla conferenza stampa di presentazione annuncia di avere l’intenzione di riportare lo “ShowTime” a Los Angeles.
Ma la squadra è martoriata dagli infortuni: il play canadese (ormai trentottenne) salta 32 partite a causa dei problemi cronici alla schiena; Gasol ne salta 33 ed è scontento, si ritrova ai margini dell’attacco e non vengono sfruttate le sue doti in post basso; in più Howard gioca tutto l’anno con problemi alla spalla e alla schiena, si lamenta dei pochi schemi chiamati per lui, e inoltre viene accusato dai media e dal coach di focalizzarsi poco sulla squadra e più sull’incombente Free Agency.
Si aggiunge a tutto ciò il rapporto contrastante tra Kobe e Dwight: i due non legano né sul parquet, né fuori.
Il trio Bryant-Nash-Howard gioca insieme soltanto il 7.2% dei minuti totali, e il pick & roll tra gli ultimi due, che a inizio stagione si credeva potesse essere un’arma letale, non riesce mai ad essere efficace.
Tra gli altri problemi c’è senza dubbio il sistema difensivo, per il quale D’Antoni viene ampiamente criticato: la squadra concede 104.0 punti a partita.
Nonostante ciò, dopo uno dei peggiori inizi di stagione nella storia della franchigia, D’Antoni apporta dei piccoli aggiustamenti: fa giocare Kobe da play, dà a Nash un ruolo da “spot up shooter” e cerca di coinvolgere maggiormente i due lunghi.
I Lakers post All Star break registrano un record di 28-12 (45-37 totale), e si qualificano ai playoff con il settimo seed grazie alla vittoria all’ultima partita sui Rockets.
Privi di Bryant, soccombono al primo round (per la prima volta dal 2007) sotto i colpi di San Antonio in quattro partite.
Inizia la telenovela Howard: Dwight in estate diventa free agent, e i Lakers fanno di tutto per convincerlo a restare.
Ma i noti problemi con il coach e con Kobe, non sembrano essere sormontabili e il centro crede che la squadra non sia costruita per vincere. Firma con Houston dopo una sola stagione in California.
Nel frattempo D’Antoni, viene richiamato da Coach K per le Olimpiadi di Pechino, dove Team USA vince l’oro.
L’ultima annata è disastrosa: continua la piaga degli infortuni con un totale di 319 partite saltate complessivamente dai giocatori a roster, finiscono 14esimi a Ovest mancando i playoff per la prima volta dal 2005, e con il secondo peggior record nella storia della franchigia (27-55).
Di nuovo senza Bryant per tutto l’anno e con Nash limitato a sole 10 partite, l’unica nota positiva si rivela Nick Young, che si adatta perfettamente al gioco del suo allenatore e ne mette 18.0 (career high) ad allacciata di scarpe.
D’Antoni ha da poco lasciato la panchina Lakers, ma sono davvero tutte sue le colpe ?
Di sicuro, il suo idealismo e la persistenza nel cercare di applicare la sua visione della pallacanestro ad un team privo di giocatori compatibili, ha danneggiato lo spogliatoio e le aspirazioni di LA; ma d’altro canto il biennio è stato molto difficile: la vicenda Howard ha scosso non poco l’ambiente, e gli infortuni hanno falcidiato la squadra non permettendo una continuità di progetto.
C’è da dire che le dimissioni di D’Antoni, sono state accolte con sorpresa dal GM Kupchack e dalla dirigenza giallo-viola in toto, che erano intenzionati a tenere l’allenatore per un altro anno.
Forse, temevano che senza di lui non ci sarebbe più stato un capro espiatorio a cui addossare le colpe dei fallimenti, chi può saperlo.
Di sicuro sappiamo che sarà un’estate calda per i Lakers.
Per la prossima stagione hanno contratti garantiti per soli tre giocatori: Bryant, che ha rinnovato a 48.5 milioni per due anni; Nash (9.7 milioni annui), e Robert Sacre (1 milione). Mentre la sorpresa Kendall Marshall ha un contratto non garantito (1 milione).
Fonti vicine all’ambiente fanno sapere che la dirigenza non ha intenzione di utilizzare la “stretch provision” al contratto di Nash (ovvero una norma che concede di spalmare i 9 milioni garantiti al giocatore su tre anni), cosa che permetterebbe di amnistiare subito il canadese, ma che andrebbe poi a pesare sullo spazio salariale futuro.
Kupchack preferirebbe firmare giocatori con contratti annuali al minimo, in modo da avere maggiore spazio di manovra nella Free Agency 2015, quando si libereranno nomi del calibro di Love, Aldridge e Rondo.
Si dovranno fare delle scelte, la prima riguardante (al solito) Pau Gasol.
Lo spagnolo in estate sarà unrestricted free agent ed è poco probabile che i Lakers decidano di rifirmarlo, a meno che non si dimezzi il faraonico stipendio (20 milioni), ma anche in quel caso le possibilità appaiono poche: a luglio compirà 34 anni, è in parabola discendente, e solo a tratti è sembrato il giocatore che li aiutò a conquistare due titoli. Ma si sa, con LA e Gasol mai dire mai.
Chris Kaman, Jordan Hill, Wesley Johnson e MarShon Brooks partiranno quasi sicuramente, mentre per Kent Bazemore e Ryan Kelly potrebbero esserci qualyfing offers attorno al milione. Jordan Farmar e Xavier Henry potrebbero invece ricevere un altro contratto di un anno al minimo salariale.
Più complicata appare invece la situazione Nick Young, che data la sua più che positiva stagione potrebbe utilizzare la sua player option e sondare il mercato FA alla ricerca di un contratto più vantaggioso: Kupchack potrebbe anche decidere di rifirmarlo a 4-5 milioni a stagione e con un contratto pluriennale, oppure lasciarlo andare e rifirmare (via Early Bird) Jodie Meeks, il quale sotto D’Antoni ha avuto il miglior anno della sua carriera NBA (15.7 ppg – 46% – 40% da 3).
Questione Draft. Alla lotteria del 20 maggio, i Lakers avranno il 43.9% di possibilità di selezionare alla 6 (6.3% alla numero 1), e anche se sperano di scalare qualche posizione, sanno che quello che verrà si prospetta essere uno dei Draft più “deep” dell’ultimo decennio: con Marcus Smart, Julius Randle e Dante Exum tra i papabili a vestire la canotta giallo-viola.
Ma chi siederà in panchina ? Le opzioni sono due. La prima sarebbe prendere un coach di alto profilo come Stan Van Gundy, Lionel Hollins o George Karl (al momento tutti disoccupati) e puntare forte su di lui. La seconda prevedrebbe un allenatore al primo anno (si parla di Steve Kerr) e utilizzarlo o come traghettatore, oppure dargli fiducia e ripartire con lui.
Inoltre, l’ipotesi paventata dai media di un possibile arrivo di Carmelo Anthony a Lakerland, pare più che mai remota, sia per questioni di cap space, ma soprattutto per questioni prettamente sportive: è impossibile che Melo accetti di giocare per un team in fase di ricostruzione.
Perché è proprio questo che sono i Lakers da un anno a questa parte ormai, ma sembra che nessuno si azzardi a pronunciare questa parola.
Di sicuro non Kobe Bryant, il quale ha però firmato un contratto monster che ha messo (e metterà)in difficoltà le manovre della dirigenza, al contrario di quanto fatto da Duncan e quanto farà a breve Nowitzki.
Si sarà forse arreso alla realtà dei fatti, abbandonando ogni speranza di conquistare il tanto agognato sesto titolo?
Questo forse no, ma ci vorrà del tempo prima che torni il sole a Los Angeles, e l’orologio non si ferma nemmeno per il Mamba.
E D’Antoni ? “Il Baffo” ha annunciato che non smetterà di allenare.
L’ipotesi più suggestiva sarebbe Golden State, che ha da poco licenziato Mark Jackson.
Con Curry nelle vesti di Nash, Thompson come Richardson, Iguodala a fare da Shawn Marion, Draymond Green nel ruolo che fu di Diaw, e Lee (o Bogut) come Stoudamire, sarebbe spettacolo assicurato, ma non credo rientri nei piani di Bob Myers.
Date le recenti debacle, difficilmente gli verrà affidata una panchina NBA a breve.
Un’idea potrebbe essere quella di allenare una squadra di college, con giocatori giovani e veloci che si prestino al suo gioco tutta corsa e spettacolo.
O forse chissà, magari l’Italia, e tornare così ad entusiasmare ancora una volta un pubblico che non l’ha mai dimenticato.
Napoletano classe ’89. Amante dell’arte in ogni sua forma, che si traduce in Kubrick, Kandinskij e Arctic Monkeys. Dopo un debole per Iverson, un’infatuazione per McGrady, e un amore contrastante per Kobe, trovo la mia “anima gemella” alla posizione numero 5 del Draft 2003. Venero il run & gun di marca D’Antoniana e le telecronache Mike Breen-Stan Van Gundy.
Sanguino giallo viola e azzurro.
Effettivamente vedere Mike sulla panchina di Golden State sarebbe affascinante…potrebbe portare Curry a livelli da mvp e valorizzerebbe ancora di più un giocatore secondo me utilissimo come Draymond Green. Dall’altro lato è vero che con il sistema-D’Antoni non si vince il titolo, e questo credo che (quasi) tutti i presidenti delle franchigie NBA l’abbiano capito. Sarebbe bello allora vederlo su una panchina di un college dalla filosofia offensiva, come la Creighton di quest’anno.