Il fatto che per noi oggi sia difficile immaginare una pallacanestro senza la linea del tiro da tre, è la miglior dimostrazione del successo di una regola relativamente recente (il three point shot è stato introdotto in NBA solo nel 1979) che ha avuto impatto e successo tali da entrare nel DNA di questo sport, dando inizio all’era moderna del basket.

Negli ultimi trent’anni il tiro da tre punti ha ispirato molti modi di giocare nuovi, ha fatto la fortuna dei tiratori e modificato per sempre la geografia di questo sport; curioso che per tracciare quel semicerchio siano passati così tanti anni dal suo concepimento.

Il primo a parlare di tiro da tre fu un allenatore d’High School dell’Indiana, il rispettatissimo Herman Sayger; era il 1933 quando propose di implementare sul campo tre aree di tiro: una, più vicina a canestro, dalla quale si ricavasse un solo punto per ogni tiro messo a segno; una seconda, a distanza intermedia, che valesse due punti, e infine una terza, a circa sette metri, che di punti ne regalasse tre ad ogni canestro realizzato.

Inutile dire che se l’idea di Sayger fosse diventata realtà, il basket sarebbe stato uno sport molto diverso. Non ci sarebbe mai stato il dominio dei lunghi e, sin agli anni ’30, la chiave del gioco sarebbe consistita nell’allargare il campo (proprio come succede oggi). Non sapremo mai che ne sarebbe stato della pallacanestro, ma di certo sarebbe stata molto diversa; forse avrebbe assunto una fisionomia simile al basket odierno, legato alle qualità balistiche degli esterni e alla velocità.

La proposta di Sayger rimase lettera morta fino al 1945, quando fu ripescata da Howard Hobson, che allenava l’università di Oregon; Hobson immaginava (correttamente) che i tre punti avrebbero limitato l’impatto dei giocatori alti e impedito le difese a zona, agendo cioè da equalizzatore tra piccoli e lunghi dominanti. Hobson, a differenza di Sayger, era capace di esercitare molta più pressione, perché era membro del Comitato per le Regole: ottenne fu un test, disputato tra Columbia e Fordham, il 7 febbraio del 1945, ma, ancora una volta, non se ne fece nulla.

Il canestro da tre punti ricomparve a inizio anni sessanta, ma siamo all’aneddotica pura: nel 1961 la ABL (lega minore che visse solo per una stagione e mezzo) utilizzava il tiro da tre (ed era un po’ come quando a Giochi Senza Frontiere giocavano il Jolly), mentre un insegnante di educazione fisica portoricano, tale Eddie Rios Mellado, lo applicò a livello scolastico, nel 1962.

Nel 1967 la ABA, in cerca di una sua precisa identità, decise di usare il tiro da tre per rendere più elettrizzante il gioco; tre anni più tardi l’ABA venne inglobata dalla NBA e il tiro da tre finì nel dimenticatoio, almeno fino al 1979, quando l’allora Commissioner Larry O’Brien decise d’introdurlo.

Il primo canestro da tre punti appartiene a Kevin Grevey (Washington Bullets), che lo mise a segno nella prima gara con il tiro da tre disputata in NBA, il 12 ottobre del 1979.
In breve, anche la NCAA capitolò, introducendo la linea del tiro nel 1986, seguita a distanza di un anno dai tornei di High School.

Da allora, il tiro dalla lunga distanza ha cambiato il gioco, talvolta in modi imprevedibili. Dopo oltre trentacinque anni, il tiro da tre rimane al centro di aggiustamenti e correttivi che caratterizzano questo sport, sempre fluido nella sua continua evoluzione. I tiratori migliorano sempre di più, perfezionando la tecnica, mentre le difese sono costrette a correre ai ripari con nuovi accorgimenti.

Le triple sono un’arma a doppio taglio (si è detto spesso che chi vive di tiro da tre muore con esso), ma è innegabile che oggi siano diventate molto più che una trovata “per lo spettacolo”, com’erano quando George Mikan, negli anni sessanta, le definì un “home run”.

Il venerabile Hubie Brown, che allenava durante gli anni pionieristici del tiro da tre, ricorda che “dovevi dire ai tuoi giocatori di ricordarsi chi sono i tiratori e quando sono ai 7.6 metri, di incollarsi a marcarli. Non si potevano più concedere i tiri da 7 metri, cioè qualcosa che i giocatori sono stati invitati a fare per tutta la vita. Allo stesso tempo, come allenatore, se disponi di un tiratore con range sufficiente, devi ricordarti di concedergli la libertà di tirare da tre, cioè un principio contrario a tutto quello che ti è stato insegnato, ovvero martellare la palla sotto canestro”.

Gli staff tecnici cominciarono a chiedere a ragazzi cresciuti in un basket nel quale qualsiasi canestro valeva due punti (o uno nel caso dei liberi, ovviamente) di modificare i propri istinti in modo adeguato alla rivoluzione copernicana in corso, grazie alla quale anche un tiro da lontano poteva essere un “buon tiro”.

Naturalmente, per segnare da sette, otto metri, occorre anche una discreta tecnica, e negli anni settanta pochi ne disponevano. Nel 1980 la media NBA di tiri da tre per partita era di 2.7, oggi è di 21, ed è la misura di quanto sia migliorata la tecnica di tiro e quindi la fiducia degli allenatori circa la sua affidabilità e utilità.

Il tiro dalla lunga distanza è stato anche uno dei veicoli per l’approdo dei giocatori europei in NBA; la scuola slava in particolare ha sempre prodotto grandi tiratori, e nel corso degli anni novanta alcuni di loro sono sbarcati oltreoceano.

In fondo anche oggi nelle menti degli americani permane il luogo comune secondo il quale gli europei sono per prima cosa dei tiratori: persino Danilo Gallinari, che in Italia abbiamo sempre considerato un all-around, sbarcato negli USA, venne definito un tiratore.

Guardando la lista dei migliori tiratori ogni epoca, s’incontrano i nomi di giocatori contemporanei e altri ritirati da anni, come Reggie Miller, Wesley Person, Glen Rice, Brent Barry, Allan Houston o Dale Ellis, quasi che il fondamentale non si fosse sviluppato nel corso degli anni.

I migliori tiratori odierni valgono all’incirca quelli di dieci, quindici anni fa (anche se si è lavorato molto sulla velocità di rilascio della palla, sempre a causa della rapidità delle difese) ma è la qualità media a essersi impennata.

Se nel 1998 il tiro da tre era un’arma per specialisti, è via via diventata bagaglio indispensabile di tutti gli esterni. Oggi la media NBA sul tiro da tre è del 35.9%, mentre nei primi anni ottanta valeva solo il 23%; sono numeri che denunciano un’accresciuta abilità complessiva nel tiro pesante, al di là del singola eccellenza alla Larry Bird, che tirava benissimo già allora.

Tra il 1994-95 e il 1996-97 l’NBA decise di sperimentare per aumentare i punteggi e decise di “barare”, avvicinando la linea del tiro da tre (in quegli anni la linea divenne omogenea a 6.7 metri, senza differenza tra l’arco e gli angoli). Al di là dell’idea –discutibile– per cui punteggi alti siano sintomatici di spettacolo, le percentuali di tiro schizzarono verso l’alto, ma la lega decise ugualmente di tornare sui propri passi (visto che i punteggi non cambiarono granché), per tentare di aprire maggiormente il campo.

La presenza della linea dei sette metri ha fatto sì che nascesse l’esigenza di migliorare l’esecuzione del tiro, rendendolo gradualmente più affidabile.

Con il tempo, la tecnica si è raffinata, il tiro da tre è arrivato nelle scuole (prima nei college e poi alle superiori), rendendolo parte del normale bagaglio tecnico di qualunque esterno (e a volte anche di alcuni lunghi), infatti la curva di crescita del tiro da tre si impenna a fine anni ottanta, quando sbarcarono in NBA i primi rookie ad aver affrontato la NCAA (e poi anche l’High School) su campi con disegnato l’arco del tiro da tre.

3PAT

3-Percents

Rispetto agli anni settanta, i giocatori contemporanei sono nati e cresciuti con il tiro da tre, sanno quando prenderlo e come difenderlo.

Già, la difesa. Perché se è sotto gli occhi di tutti quanto siano diversi gli attacchi di oggi rispetto a quelli degli anni settanta, è importante notare che anche le difese sono cambiate in modo radicale, estremizzando il concetto di aiuto-e-recupero, perché le spaziature sono cambiate e non basta più proteggere il ferro.

L’abolizione della difesa illegale ha agito da catalizzatore di un fenomeno già in corso; nel 2001 la NBA decise di porre fine all’uso e abuso degli attacchi in isolamento, intervenendo sulla regola che consentiva agli attacchi di piazzare tre o addirittura quattro giocatori su un lato, mentre la stella di turno iniziava indisturbata il proprio uno contro uno.

Man mano che le difese imparavano a usare meglio i vantaggi dell’abolizione dell’Illegal Defense, nasceva l’esigenza per gli attacchi di trovare nuovi modi per costruire tiri qualitativi.

L’introduzione della difesa a zona ha modificato il modo di intendere il tiro da tre, che è passato da uno status di “tiro bonus” a essere considerato uno strumento chiave per spaziarsi.

Oggi le squadre provano a schierare cinque atleti dotati di tiro per evitare di trovarsi a giocare contro difese che portino raddoppi troppo facili in direzione del palleggiatore; eccellenti specialisti come Tony Allen (ma anche grandi giocatori con poco tiro come Rajon Rondo) possono ritrovarsi “battezzati” a causa della loro scarsa pericolosità da fuori, e in un basket nel quale l’unico limite alla creatività dei defensive coordinator è la regola dei tre secondi difensivi, schierare un esterno che non rappresenta una minaccia, è un lusso difficile da concedersi.

In questo senso, spesso si sente dire che l’uso dei quattro tattici è motivato da esigenze eminentemente offensive (aprire il campo con un penetratore/tiratore aggiuntivo), ma non è necessariamente vero: il “quarto esterno”, a determinate condizioni, è un formidabile strumento difensivo, perché consente di cambiare sui pick-and-roll e di essere più reattivi negli aiuti, ma, salvo disporre di gente come Josh Smith, Lamar Odom o Shawn Marion, significa anche esporsi a rimbalzo e avere minore intimidazione nel verniciato.

Quel che è certo è che schierare due lunghi “classici” è diventato complesso; pensiamo a cos’è capitato a Roy Hibbert contro gli Atlanta Hawks, che mettevano ben cinque giocatori dietro l’arco da tre: Hibbert si è ritrovato a dover marcare Antic a distanze siderali dalla sua area di competenza, troppo lontano per aiutare i compagni battuti sul palleggio e fornire così l’abituale intimidazione; questo significa che nel basket del futuro non ci sarà spazio per giocatori alti ma lenti?

A determinare la fisionomia del gioco ci pensa la combinazione di due elementi: regole e caratteristiche dei giocatori (che a loro volta si influenzano a vicenda); oggi non ci sono lunghi dominanti, e le regole consigliano di concentrare le conclusioni nel verniciato e da dietro l’arco, negligendo i tiri mid-range; se nel 1980 l’87% dei tiri era da due punti, oggi la percentuale è scesa al 62%, segno che la tendenza è di cercare il lay-up, oppure, in alternativa, il tiro che vale un punto in più da dietro l’arco.

Questa tendenza è confermata guardando le percentuali con le quali si segna da due: negli anni ottanta il two-pointer veniva convertito nel 48% dei casi, percentuale che precipitò al 45% nel 1999 (lockout), quando tanti tiri arrivavano dagli isolamenti alla media distanza, per poi risalire ai livelli del 1980 in queste ultime stagioni, contraddistinte dall’abbandono del “long two”.

Tuttavia non bisogna fare troppa filosofia; se in linea teorica oggi conviene giocare così, va anche detto che bisogna avere il personale giusto per farlo o si rischia di tirarsi la zappa sui piedi: Jaeger di Memphis, Vogel di Indiana sarebbero folli a sacrificare Zach Randolph o David West in nome nel tiro da tre.

Il miglior allenatore in attività, Gregg Popovich, si è dimostrato (come sempre) ahead of the curve, alternando sapientemente gli assetti con quattro esterni o con Splitter e Duncan in contemporanea, in base all’avversario e alle esigenze, riuscendo in entrambe le circostanze a spaziare magistralmente i giocatori e a ottenere eccellenti tiri.

In ultima istanza, l’ex agente della CIA sta dimostrando che non serve diventare i più ferventi seguaci dell’ultima moda, quanto implementarla in un sistema flessibile in base al personale, senza ragionare per assiomi.

Della famosa “triplice minaccia” che un attaccante deve porre alla difesa (tiro, passaggio e palleggio) oggi ci si sta concentrando sul tiro, ma è tutto sommato ragionevole immaginare che dietro l’angolo ci possa essere l’esigenza di usare il palleggio per battere il proprio marcatore e guadagnare quelle zone del campo che saranno sempre più terra di nessuno (la media distanza) o eventualmente per attrarre il raddoppio e scaricare.

Quel che è certo è che il tiro da tre non ha ancora finito di cambiare il volto della pallacanestro e si è rivelato uno strumento tattico interessantissimo anziché il trucchetto che faceva storcere il naso ai puristi.

Dal tiro da tre sono (direttamente o meno) scaturiti infiniti nuovi modi di giocare che hanno impreziosito il gioco, rendendolo ancora più emozionante e consentendone una continua evoluzione.

 

6 thoughts on “Focus: l’impatto sul gioco del tiro da 3

  1. Articolo interessante. Aggiungerei che per “allargare” la difesa traendone vantaggio, l’attacco deve prima farla “stringere”, creando così scollature nelle rotazioni; senza un gioco “inside/out” la difesa si aspetta già di dover restare larga dall’inizio ed ha vita più facile. Realizzatori da post basso, (come Aldridge, Duncan, Howard, Bogut…) facilitano proprio il tiro da tre che, a sua volta, costringe la difesa a concedere qualcosa in post basso; non è una novità che gli attacchi più efficienti, non siano monodimensionali (hai citato il Pop che ne è un ottimo esempio).
    Gli attuali playoff stanno forse inflazionando lo “small-ball”, spesso dimenticando che ogni “mismatch” ha sempre due facce: se Hibbert non è adatto ad uscire sul perimetro ad inseguire Millsap o Antic, anche Antic non dovrebbe essere sufficiente ad inibire Hibbert in post basso (tantomeno Millsap), chiamando così in causa proprio quei raddoppi che aprono spazio sul perimetro (e qui dovremmo parlare di allenatori…). Non è un caso se, di fronte al duo Gortat-Nene, Thibodeau ha deciso di ridurre il minutaggio di Boozer, preferendogli il difensore Gibson: il mismatch non è sempre in favore dei piccoli ed un mismatch in post basso fa solitamente più danni di un mismatch sul perimetro (data la differente % di realizzazione, anche se da fuori vale 3… ).
    Chiaramente, se invece il lungo di turno è Perkins o Jordan, allora lo small-ball può essere davvero un’ottima idea, considerata l’incapacità tecnica dei due nel segnare in autonomia (da qualche parte, nel Pacifico, Don Nelson sorride…).

  2. C’è un’imprecisione nell’articolo, quando dice:
    “Nel 1967 la ABA, in cerca di una sua precisa identità, decise di usare il tiro da tre per rendere più elettrizzante il gioco; tre anni più tardi l’ABA venne inglobata dalla NBA…”.
    No, la ABA (American Basketball Association) è stata attiva dal 1967 al 1976. E non venne inglobata nella NBA: quattro franchigie vennero ammesse, dopo averne fatto richiesta. Denver Nuggets, Indiana Pacers, New York Nets (che si trasferirono ad East Rutherford, divenendo New Jersy Nets) e San Antonio Spurs. Le altre franchigie ABA cessarono del tutto la propria attività.

  3. Al di là della svista, non sono d’accordo col taglio dell’articolo. Fino a 20-25 anni fa, il tiro da tre era una risorsa secondaria, mentre oggi è diventata quella primaria, finendo per snaturare il gioco.
    “Naturalmente, per segnare da sette, otto metri, occorre anche una discreta tecnica, e negli anni settanta pochi ne disponevano. Nel 1980 la media NBA di tiri da tre per partita era di 2.7…”. Negli anni 70 c’erano fior di tiratori in America (Jerry West, Rick Barry, Pete “Pistol” Maravich, Kiki Vandeweghe ed altri) solo che il gioco era strutturato in modo diverso. Si poggiava molto di più sull’asse playmaker-centro; non a caso tutte le maggiori squadre avevano un forte pivot ed un regista dalle ottime doti di passatore. Perciò i giocatori dominanti di quegli anni furono Thurmond, Jabbar, Walton, Darryl Dawkins, Moses Malone, Wes Unseld, Jack Sikma tra i lunghi e Archibald, Bradley, Lucas, Dennis Johnson, Ernie Di Gregorio tra i play. Il tiro era un’arma secondaria, quasi di ripiego. A partire da fine anni 80-inizio 90, il gioco si è spostato sempre più verso gli esterni. Ecco perchè un lungo mediocre come Cartwright (riserva di Ewing ai Knicks) potè vincere 3 titoli consecutivi come centro titolare dei Bulls, grazie alla presenza di gente come Jordan e Pippen.
    “Il tiro dalla lunga distanza è stato anche uno dei veicoli per l’approdo dei giocatori europei in NBA; la scuola slava in particolare ha sempre prodotto grandi tiratori”. Non è così. I primi giocatori europei a sbarcare in NBA furono Georgi Glouckov, Uwe Blab e Fernando Martin. Quindi Detlef Schrempf e Rik Smits, tutti tra il 1985 e il 1988 e nessuno di loro era un tiratore. Poi nel 1989 sbarcarono Divac, Volkov, Paspalj, Marciulionis e Petrovic. Di questi il solo Drazen era tiratore, anche se ritenerlo soltante tale è riduttivo. Inoltre, il basket slavo ha prodotto anche eccellenti “non-tiratori”: a cominciare da Cresimir Cosic, per proseguire con Jerkov, Radovanovic, Kicanovic, Radja, Savic, lo stesso Divac. E perfino oggi due dei maggiori protagonisti slavi nella NBA sono Pekovic e Vucevic, entrambi centri.
    “Oggi la media NBA sul tiro da tre è del 35.9%, mentre nei primi anni ottanta valeva solo il 23%; sono numeri che denunciano un’accresciuta abilità complessiva nel tiro pesante, al di là del singola eccellenza alla Larry Bird, che tirava benissimo già allora”. L’abilità di Bird nei tiri da 3 risale ai 3 successi all’All Star Game, dove però si tira senza opposizione, cosa molto diversa dal farlo in gara, ma comunque oltre lui c’erano altri specialisti in giro, a cominciare dal suo compagno di squadra Danny Ainge e proseguendo con Craig Hodges. No, sono numeri che dicono che oggi si tira da 3 molto di più di 30 anni fa, non perchè allora non ci fossero tiratori (si pensi ad Alex English e a Bernard King), ma perchè è il gioco ad essere cambiato. Oggi perfino un Ibaka tira da 3, all’epoca i primi lunghi a farlo furono Sikma e Laimbeer (che ne mise 6 in una singola partita di finale, tanto per dire che sapevano tirare eccome!), ma era una variante tattica sul sistema di gioco. Oggi si gioca al penetra-e-scarica o allo step back-e-tira, molte squadre hanno contemporaneamente in campo 4 tiratori, di giochi a due se ne vedon pochi, di fade-away da parte dei lunghi ancora meno (l’ultimo è stato Yao Ming). In compenso di piccoli raziocinanti si fa sempre più fatica a trovarne: sono diventati tiratori anche loro. Una volta c’erano i Magic, gli Stockton, i Dennis Johnson, i Doc Rivers, gli Isiah Thomas, oggi gli Steph Curry o i Kirye Irving preferiscono lo sparacchiare al passare.
    In definitiva, non è il gioco ad esser virato verso il tiro da 3, ma sono i tiri da 3 ad aver cambiato il modo di giocare e di “vedere” il gioco da parte di giocatori e tecnici.

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