Il buon vino necessita di tempo per fermentare e a volte anni per pregiarsi di quelle qualità che rendono alcune bottiglie tanto rare quanto ricercate.

Il terreno dove cresce la vite, le botti dove il mosto riposa, le correzioni aromatiche sono un processo selezionatissimo che non lascia niente al caso. Gli Spurs campioni 2014 sono come una bottiglia d’annata che in questa stagione ha avuto modo di essere stappata.

Gregg Popovich, grande intenditore di vini, ha selezionato con cura i giocatori, ha avuto bisogno di tempo perché la squadra prendesse la forma voluta ed è stata essenziale la possibilità di lavorare in piena sintonia con la dirigenza nel corso degli anni.

Scorrendo la carriera del quinto coach più vincente di sempre (per titoli vinti) è sorprendente come,  nonostante il suo atteggiamento dentro e fuori il campo non sia sostanzialmente mai cambiato, il modo di giocare delle sue squadre abbia subito una metamorfosi tanto radicale.

Popovich ha creato un personaggio burbero con i media che ha fatto da scudo alla squadra nei momenti più difficili, conquistando la fiducia della stella della squadra, Tim Duncan, potendo così lavorare sugli altri giocatori selezionando quelli più adatti alla sua idea di pallacanestro.

Il passaggio dai primi Spurs campioni del 1999 a quelli odierni è stato un processo lungo, vincente all’inizio ma che ha attraversato 5 anni di buio fino al ritorno alle Finals della scorsa stagione.

Questi Spurs nascono dalla necessità di trovare un modo per restare competitivi anche nel post Robinson. San Antonio non è una città attraente come possono essere New York o LA e la costanza di risultati negli anni ha impedito scelte alte al Draft. Da qui nasce la necessità di formare i giocatori, in un’ottica poco comune alle franchigie che lottano per l’anello.

Le scelte lungimiranti di Ginobili e Parker hanno pagato subito dividendi all’inizio del nuovo millennio quando con Duncan hanno formato un trio capace di vincere tre anelli tra il 2003 e il 2007. Il calo fisiologico dovuto all’età soprattutto del caraibico e dell’argentino ha ulteriormente accelerato il processo di trasformazione.

In una NBA sempre più standardizzata in cui gli isolamenti rappresentano la soluzione più utilizzata e dove gli schieramenti base spesso hanno lo stesso nome in tutte le squadre, Popovich ha puntato decisamente su un gioco di flusso e letture. Un gioco solo all’apparenza più semplice, ma perché sia efficace deve basarsi su un’intesa fortissima dei cinque giocatori in campo.

La prima versione degli Spurs campioni aveva una gerarchia ben definita con Johnson ad impostare gli schemi, Elie a difendere sull’esterno più pericoloso, Elliot come tiratore piazzato e le Twin Towers Duncan e Robinson a dominare in area. Rotazioni ridotte al minino e controllo del ritmo e del punteggio.

Oggi gli Spurs segnano per cento possessi quasi venti punti in più, si prendono tiri anche nei primi secondi dell’azione e hanno due quintetti competitivi da poter schierare.

Questo cambiamento è partito da Popovich stesso che non ha spostato il baricentro della squadra verso la fase offensiva come si potrebbe inizialmente pensare: la fase di transizione difensiva degli Spurs è curata maniacalmente come quella di fine anni ’90, ma ha reinventato completamente la fase offensiva.

Il ritorno alle Finals nelle ultime due stagioni non è frutto solo di un’efficienza offensiva superiore al passato ma anche di una solidità difensiva ritrovata che sembrava smarrita negli anni dopo il quarto titolo del 2007. Con il ritiro di Robinson sarebbe stato impensabile mantenere le stesse regole difensive perché Robinson sarebbe stato difficilmente sostituibile.

Da una difesa d’intimidazione e di rimbalzi gli Spurs sono passati ad una difesa più selettiva, coprendo determinate zone del campo meglio di altre, concedendo soluzioni meno pregiate con l’intento di limitare quelle che nell’idea di Popovich sono quelle più redditizie, adattando sempre e comunque la difesa in base all’avversario.

La duttilità di Popovich è cresciuta esponenzialmente con gli anni. Lo schieramento con due lunghi e tre esterni è tale solo sulla carta. In base all’avversario Popovich ha dimostrato di saper utilizzare quintetti diversi.

La variazione più frequente è quella del compagno di reparto di Duncan. Bonner, Diaw o Splitter si alternano a seconda dell’occasione e della volontà di Popovich di allargare il campo con un tiratore, di avere un playmaker aggiunto o un lungo classico d’area.

Fermo restando che Ducan, Parker e Ginobili sono stati il perno della squadra la crescita di Green, Splitter, Mills e Leonard con gli innesti di Diaw e Bellinelli sono stati determinanti per il successo del 2014. La capacità di selezionare e far maturare i giovani non ha eguali nella NBA. Popovich è tra gli allenatori Pro il miglior insegnante di pallacanestro.

Dando uno sguardo al roster di quest’anno il giocatore selezionato più in alto dopo Duncan, primo assoluto nel 1997, è Leonard con la numero 15 del 2011 che San Antonio ha ottenuto da Indiana per la cessione di George Hill. Un roster ricco di giocatori dall’educazione cestistica extra americana adatti ad uno stile di gioco più europeo che a stelle e strisce. Pochi isolamenti e molti penetra e scarica.

La volontà di Popovich è di continuare ancora per qualche anno, anche dopo che Duncan deciderà di smettere, per poi mettersi dietro una scrivania e orchestrare il futuro della dinastia che ha contribuito a creare negli ultimi quindici anni.

Se le voci sull’approdo di Ettore Messina sulla panchina a fianco di Popovich si concretizzassero gli Spurs avrebbero il sostituto ideale come capo allenatore, capace di seguire le tracce lasciate e condurre la squadra a nuovi tronfi.

Non sarà facile nè immediato, servirà il tempo necessario. Sicuramente dopo la vittoria contro Miami, Popovich ha stappato una di quelle speciali, veramente speciali, una bottiglia per un’occasione più unica che rara.

Troppe volte abbiamo dato per finiti i suoi Spurs ma alla fine il tempo gli ha dato ragione.

 

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