Grant Hill nacque a Dallas il 5 ottobre 1972. Se pensate che stia per raccontarvi la classica storia del ragazzo americano che si butta anima e corpo nel basket per sfuggire alla violenza e alla povertà del suo sobborgo di periferia, siete fuori strada: suo padre Calvin era infatti running back dei Dallas Cowboys (il primo Cowboy della storia a chiudere una stagione con più di 1.000 yards corse), mentre la madre Janet era procuratrice e consulente finanziario.

Nel 1981, dopo il ritiro dal football professionistico del padre, la famiglia Hill si stabilì definitivamente a Reston (Virginia), dove aveva già alloggiato per un breve periodo quando Calvin giocava per i Redskins di Washington.

Qui il piccolo Grant crebbe come figlio unico, all’interno di una famiglia dalle regole severissime: fino a 16 anni non gli era permesso partecipare ad alcun tipo di festa, non poteva fare telefonate se non nel weekend, non poteva lasciare il quartiere se i genitori non erano a casa e non poteva uscire nemmeno in giardino fino a che non avesse finito tutti i compiti.

Non che tutte queste imposizioni gli dessero troppo fastidio, in realtà: Grant era il tipico ragazzo introverso tutto casa e scuola, che non infrangeva mai le regole e nemmeno pensava di farlo.

Oltre alla sua educazione scolastica, l’unica altro interesse dei genitori era spingere il figlio ad eccellere in qualsiasi sport, fin dai suoi primi anni di vita; ma, liberi di crederci o meno, fu il padre stesso a spingere Grant verso il basketball, vietandogli a più riprese di iscriversi alla squadra di Junior League Football della sua scuola.

Mai scelta fu più azzeccata. Ma proprio a causa del basket, Grant ebbe il primo vero screzio con il padre: quando era Freshman alla South Lakes High School, gli venne proposto di saltare l’anno nella Junior Varsity (una sorta di squadra delle riserve per intenderci, dove giocavano i ragazzi con meno esperienza) per entrare direttamente a far parte del Varsity Team (la squadra titolare).

Il padre Calvin e il coach della squadra fecero di tutto per convincerlo a fare il salto di categoria, ma lui continuava a rifiutare. Arrivò a piangere di fronte all’insistenza del padre. Qualsiasi ragazzo avrebbe fatto i salti di gioia, ma non Grant.

“Ho sempre voluto essere come tutti gli altri. Non volevo che qualcuno, specialmente i miei amici, pensasse che io ero meglio di loro. Volevo semplicemente essere un ragazzo qualunque.”

Questo era l’adolescente Grant Hill. Fuori dalla sua casa di Reston erano parcheggiate una Porsche e una Mercedes, ma voleva che i suoi genitori lo portassero a scuola con una vecchia Volkswagen, per non dare troppo nell’occhio.

Raramente diceva di essere il figlio del famoso Calvin Hill, per non essere etichettato come “figlio di papà”. Ancora non sapeva che, di lì a poco, la vera superstar della famiglia sarebbe stata lui.

Nei 4 anni passati con la divisa di South Lakes, Hill trascinò la sua squadra alle finali di stato per ben due volte, finendo per essere selezionato nel 1990 per l’All-American Team. Ormai viveva per il basket. Quando non era in campo, passava ore a guardare partite NBA e NCAA. Le registrava e le riguardava, per carpire ogni segreto dei giocatori più forti in circolazione.

Ma era ormai giunto il momento di scegliere il college. Suo padre spingeva perché andasse a North Carolina, mentre la madre preferiva la vicina Georgetown. Ma per una volta nella vita, Grant scelse di testa sua e nel 1990 si iscrisse a Duke.

Con la jersey numero 33 dei Blue Devils vinse due titoli NCAA nei suoi primi due anni, grazie anche alla presenza in squadra di due college superstars come Christian Laettner e Bobby Hurley, entrambi sbarcati poi in NBA rispettivamente come 3^ scelta del draft 1992 e 7^ scelta del 1993.

Nel 1992 Hill prese parte ad una delle sequenze più celebri dell’intera storia del college basketball, utilizzata ancora oggi nelle sigle di molti programmi televisivi: nelle finali regionali contro Kentucky, Duke è sotto 103-102 con 2.1 secondi rimasti da giocare in Overtime; Grant rimette in gioco da sotto il proprio canestro effettuando un lancio che attraversa tutto il campo e finisce tra le mani di Laettner, che in turn-around segna l’incredibile buzzer-beater della vittoria.

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Nel 1994, nonostante Leattner e Hurley fossero ormai storia passata, Duke arrivò ancora una volta alla finale NCAA trascinata dal suo numero 33, salvo poi soccombere contro Arkansas.

Nonostante la sconfitta, Hill chiuse la sua carriera di college con il titolo di Atlantic Coast Conference Player of the Year 1994, tenendo una media di 17.4 punti, 6.9 rimbalzi e 5.2 assist a partita nel suo anno da Senior.

Era diventato un giocatore completo, in grado di segnare, andare a rimbalzo, difendere su qualsiasi avversario e far girare la palla. Per definire il suo stile di gioco tornò di moda il termine “Point Forward”, ruolo non ufficiale che sta ad indicare un’ala in grado di condurre il gioco come un qualsiasi playmaker.

Grant Hill sbarcò in NBA nel 1994, selezionato dai Detroit Pistons come terza scelta del draft tenutosi ad Indianapolis, dietro a Glenn Robinson e Jason Kidd. Nonostante fosse “solo” la terza scelta, tutti gli occhi erano puntati su di lui.

Nei due mesi successivi alla firma del contratto con i Pistons, ancora prima del suo esordio sul parquet, firmò contratti di sponsorizzazione milionari con Fila, Chevrolet, Sprite ed altre major companies americane.

La sua partita di debutto attirò le attenzioni dei media più di quanto avesse mai fatto un rookie, mostri sacri del passato compresi. Complice l’assenza di Michael Jordan dai campi NBA (Hill arrivò nella Lega proprio durante la “pausa” di MJ, anche se poi Jordan ritornò a giocare nella seconda parte di quella stessa stagione) e l’ossessiva ricerca di qualcuno che potesse prendere il posto del 23 nell’immaginario collettivo, Hill fu elevato da tutti a “The Next Big Thing” dopo His Airness.

E, a vederlo giocare, si capiva perché godesse di questa considerazione: chiuse il suo anno da rookie con 19.9 punti, 6.4 rimbalzi e 5.0 assist di media, vincendo il titolo di Rookie of the Year a parimerito con Jason Kidd.

Nella sua prima stagione ottenne anche un altro record: fu infatti il primo rookie della storia a mettere tutti in fila nelle votazioni per l’All-Star Game, a riprova del fatto che la sua immagine da bravo ragazzo aveva fatto breccia anche tra i tifosi, in un periodo storico in cui i media americani riportavano quotidianamente notizie riguardanti i pessimi comportamenti dei giocatori NBA, fuori e dentro dal campo.

Nonostante i Pistons avessero mancato l’approdo ai Playoffs nella stagione 1994-1995, riuscirono a conquistare la post-season quattro volte nei cinque anni successivi. Risultato: quattro eliminazioni al primo turno.

Iniziarono a piovere critiche su Grant Hill e su chiunque avesse osato paragonarlo a Jordan. D’altro canto, il primo a spegnere sul nascere qualsiasi paragone fu proprio Grant, al suo secondo anno:

“Non mi sembra giusto il paragone con Michael. Se non riuscissi a segnare quanto lui, o a vincere tanti titoli quanti ne ha vinti lui, tutti mi considererebbero un fallimento. Ma segnare 30 punti a partita non è mai stato nelle mie corde. Non sono quel tipo di giocatore.”

Difficile uscire vivi da un paragone con il 23, del resto. Ma ciò non significa necessariamente essere un fallimento, come invece la gente stava iniziando a considerare Hill dopo la serie di eliminazioni ai Playoffs.

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Molti tifosi umorali lo consideravano già l’ennesimo giocatore forte, fortissimo, ma incapace di portare una squadra al successo. Eppure, gli addetti ai lavori e i tifosi con un po’ di senno continuavano a pensare che l’ex Blue Devil fosse un serio candidato a diventare uno dei più forti di sempre. Giusto per citare un personaggio conosciuto da tutti, ecco il pensiero di coach Dan Peterson all’epoca:

“La miglior shooting guard dopo Jordan? Scelgo Grant Hill. Non è una guardia? Fa niente. Dopo Jordan, c’è Hill.”

In effetti, anche se fino a quel momento Hill non era riuscito a trascinare la sua squadra oltre il primo turno dei Playoffs, i numeri parlavano piuttosto chiaro. Nelle sue prime sei stagioni da professionista, Grant aveva tenuto una media di 21.6 punti (9.393 totali), 7.7 rimbalzi (3.417 totali) e 6.2 assist (2.720 totali).

Ecco l’elenco di tutti i giocatori che, nell’intera storia della NBA, hanno ottenuto numeri migliori nei loro primi sei anni: Oscar Robertson, Larry Bird, Lebron James. Punto. E poi, nel 2000, Grant aveva solo 27 anni.

A quell’età, lo stesso Jordan non aveva ancora vinto nemmeno uno dei suoi titoli. La carriera di Hill era ancora lunga, aveva davanti a sé molti altri anni per dimostrare davvero quello che valeva. Questo in teoria, almeno. Perché il destino aveva altri piani in serbo.

Iniziò tutto il 15 aprile 2000, una settimana prima dell’inizio dei Playoffs, quando Hill accusò una semplice storta alla caviglia sinistra durante una partita di fine Regular Season contro i 76ers.

L’infortunio sembrava di così lieve entità che il 33 dei Pistons decise di scendere comunque in campo nelle partite successive, salvo poi dover abbandonare il campo durante Gara 2 del primo turno dei Playoffs contro Miami.

Caviglia rotta. Hill fu costretto a declinare anche l’invito a partecipare alle Olimpiadi di Sidney nel Team USA, dopo aver subìto un intervento per la ricostruzione del malleolo. Ma in quel momento, non sembrava comunque niente di irrecuperabile.

Diventato Free Agent, nell’estate del 2000 Hill fece capire a chiare lettere che il suo tempo a Detroit era finito.

“Ho intenzione di firmare un contratto con Orlando. Non è ancora fatta al 100%, ma ci siamo vicini. So che la gente di Detroit sarà arrabbiata, ma credo di aver dato tutto quello che avevo per questa maglia. Amo Detroit, e amo la sua gente. Ma Orlando è un’opportunità d’oro.”

Preso atto della scelta del giocatore, il nuovo GM dei Pistons Joe Dumars riuscì comunque a guadagnare qualcosa dalla partenza della sua superstar, imbastendo uno scambio via sign-and-trade con Orlando che portò a Detroit Chucky Atkins e Ben Wallace in cambio di Hill.

Quello stesso anno, i Magic acquisirono anche un certo Tracy McGrady, gettando le basi per la nascita di una delle coppie di giocatori più forti di sempre. Ma quel sogno rimase pura utopia.

Per Hill, l’arrivo ad Orlando e la prospettiva di spiccare definitivamente il volo verso l’Olimpo cestistico corrispose in realtà con la perdita delle ali.

La stagione 2000-2001 non fece in tempo ad iniziare che, dopo sole 4 partite, la caviglia di Grant fece ancora crack. Seconda operazione chirurgica nel giro di pochi mesi, 10 mesi di riabilitazione, stagione finita. Ma l’ex Duke era pronto per rientrare in campo fin dall’inizio della stagione successiva, ad ottobre 2001.

Nelle prime partite sembrava che le operazioni alla caviglia non avessero lasciato segni, Grant giocava come aveva sempre saputo fare. Ma l’incubo, che sembrava finito, ricominciò. Dopo 14 partite di Regular Season, la maledetta caviglia sinistra cedette ancora. Altra operazione, altra stagione finita.

Stagione successiva, 2002-2003, stessa solfa: Hill giocò appena 29 partite prima di doversi arrendere di nuovo ai quei dolori alla caviglia. Terza stagione finita prima del tempo, con tre operazioni chirurgiche alle spalle e quattro viti infilzate nel malleolo.

Iniziarono ad aleggiare voci di un ritiro definitivo, ma Hill aveva ben altre intenzioni. Non voleva gettare la spugna dopo anni di sacrifici. Viveva per il basket. Non avrebbe accettato niente di diverso. E così, nel marzo 2003 si sottopose ad un complesso intervento di ricostruzione della caviglia, sperando di risolvere definitivamente ogni problema.

Ma, di tanto in tanto, il destino sceglie dei giorni in cui rincarare la dose. Cinque giorni dopo l’intervento, Hill ebbe un attacco di convulsioni e febbre che superava i 40°.

La situazione precipitò dopo il trasporto in ospedale: per alcune ore, prima che i medici riuscissero a stabilizzarlo, la vita di Grant rimase appesa ad un filo. Stava rischiando di morire. E per colpa di quell’intervento che avrebbe dovuto cambiargli la vita in meglio.

I medici infatti, dopo aver esaminato le ossa della caviglia, scoprirono che Hill aveva contratto un’infezione da MRSA: senza scendere troppo nel dettaglio, si tratta di uno stafilococco potenzialmente letale che può attaccare i tessuti durante operazioni chirurgiche particolarmente invasive. Un’infezione che, negli Stati Uniti, uccide più persone dell’AIDS. Per fortuna i dottori se ne accorsero in tempo, e riuscirono a salvargli la vita.

Era iniziato tutto con una semplice distorsione, stava per finire nel peggiore dei modi. Terrificante, a dir poco. Difficile trovare altre storie del genere nel mondo dello sport.

Molti si sarebbero arresi, altri avrebbero quanto meno vacillato di fronte alla decisione da prendere: smettere di giocare o tentare l’ennesimo ritorno?

Non c’è neanche bisogno di chiederlo. Sei mesi di trattamento antibiotico, più di un anno lontano dai campi. Hill non giocò nemmeno un minuto nella stagione 2003-2004, ma ad ottobre 2004 era pronto a ricominciare. Di nuovo. Dopo 4 anni in cui aveva giocato solo 47 partite, in totale.

Nella stagione 2004-2005 Grant riuscì finalmente a giocare quasi tutte le partite (67), ma era il fantasma di sé stesso: nonostante a livello realizzativo riuscì a mantenersi su buoni livelli (19.7 punti di media), concluse la stagione con il career-low in rimbalzi e assist.

Aveva perso esplosività, mobilità, elasticità. Non riusciva quasi a toccare il ferro, mentre prima dell’infortunio schiacciava in testa a tutti.

Dopo altri due anni ad Orlando, con le statistiche che peggioravano di stagione in stagione, nel 2007 firmò per i Phoenix Suns. A 35 anni e quando ormai tutti lo davano per finito, Hill sembrò trovare in Arizona le condizioni ideali per vivere una seconda giovinezza: intanto, tra le mani dell’ottimo staff medico di Phoenix riuscì quantomeno a rimanere integro per gran parte del tempo trascorso con la maglia dei Suns (solo nella quinta ed ultima stagione, a 39 anni suonati, giocò meno di 50 partite).

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In campo, invece, seppe re-inventarsi come role player, specializzandosi in particolare nella difesa 1 vs 1: non riuscendo più a dominare ogni aspetto di una partita come faceva prima del 2000, fu abbastanza intelligente da adattarsi ad un ruolo nel quale poteva ancora essere utile.

Non essendo più una delle principali scelte offensive della squadra, iniziò a prendersi meno tiri ma selezionandoli meglio, ottenendo negli anni in Arizona i Career-High in percentuale dal campo (52.3% – 2008/09), in area (54.7% – 2008/09) e dall’arco (43.8% – 2009/10).

Ogni sera, il suo compito principale era occuparsi della marcatura a uomo del miglior realizzatore avversario, indipendentemente dal loro ruolo: che si trattasse di Derrick Rose, Lebron James o Kevin Durant, il compito era assegnato sempre a lui.

Con Phoenix raggiunse solo 2 qualificazioni alla Post-Season, ma nel 2010 fu fondamentale nella cavalcata dei Suns fino alle finali di Conference poi perse contro i Lakers (giocando tra l’altro un totale di 97 partite stagionali).

Le sole 5 stagioni in Arizona non ne fanno certo uno dei Suns più “longevi”, ma la sua attitudine in campo e il suo straordinario lato umano gli hanno permesso di guadagnarsi un posto speciale nella memoria di ogni vero tifoso di Phoenix.

E così siamo arrivati ai giorni nostri, con Hill che ha appeso le scarpe al chiodo e con un interrogativo che rimane: che cosa sarebbe successo se avesse avuto la possibilità di giocare un’intera carriera senza problemi fisici?

Staremmo forse parlando di uno dei più grandi della storia recente del basket, o dell’ennesimo giocatore che accumula statistiche ma che non riesce a portare una squadra alla vittoria?

Non lo sapremo mai, ma forse non è neanche così importante. Perché di solito, quando un giocatore si ritira, se ne ricordano le gesta sportive e basta.

Ma la storia di Grant va ricordata più per il lato umano che per quello sportivo. Perché ci mostra come sia possibile rialzarsi dopo ben più di una caduta, persino quando una di queste ti porta a rischiare la tua stessa vita. Trovando nel frattempo il coraggio di riconoscere che il passato è passato, e che se si vuole andare avanti c’è bisogno di adattarsi ad una nuova realtà.

Chapeau.

[Articolo originariamente pubblicato per il nostro blog Rising Suns]

3 thoughts on “History: Grant Hill

  1. Che dire,articolo commovente…rimango ancora con il rimpianto di non aver mai visto i miei magic con lui sano,tmac e magari Tim insieme…rimarrà un sogno,ma che sogno ragazzi!!!!

    • Per chi, come me, allora già seguiva la NBA, Grant Hill avrebbe potuto essere Lebron James 10 anni prima di Lebron James: e per alcuni anni, i primi con Detroit, lo è anche stato. Una point forward che poteva fare tutto dominando il gioco col suo fisico e la sua versatilità. Lui e Tmac rimangono 2 grandi che per problemi fisici hanno raccolto molto meno di quanto meritassero, ma Hill nonostante tutto rimane un grande personaggio e un grande uomo, che ha lasciato il suo segno nella Lega.

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