Da quando esiste la lottery, solo cinque delle ventinove prime scelte assolute hanno vinto il titolo NBA.

Si tratta di Tim Duncan, David Robinson, Shaq, LeBron, e Glen Robinson, e solo Duncan e David Robinson hanno vinto con la squadra che li aveva selezionati.

Eppure, ogni fan sogna la pesca magica, quella che, dalla sera alla mattina, trasforma una squadra derelitta in un club contendente per il titolo NBA.

Il tanking, argomento ricorrente di questi ultimi anni, è, in realtà, antico quanto la NBA; è sempre successo che alcune squadre traballanti prendessero una provvidenziale imbarcata in vista di un draft particolarmente appetitoso.

Oggi la lottery viene additata come la causa del tanking, ma in realtà venne introdotta proprio (nel 1985) per evitare che si ripetesse lo spettacolo offerto da Houston nel corso del 1983-84, quando i Rockets si inabissarono, decisi a toccare il fondo e a riemergere con Akeem Olajuwon o, in alternativa, Michael Jordan.

La radicata convinzione è che, per vincere un titolo NBA, serva passare per il draft, e quindi che, per diventare fortissimi, sia inevitabile passare per un periodo di vacche magre. Così, i fans accettano di buon grado il bastone (stagioni abbondantemente perdenti) in attesa della concupita carota (il LeBron James di turno).

In realtà, analizzando i dati, emerge una situazione che non è così lineare e inequivoca.

Negli ultimi trent’anni, alcune prime scelte si sono rivelate giocatori vincenti, dal già menzionato Akeem Olajuwon (2 titoli vinti con Houston), a David Robinson (anche lui a quota 2), passando per Shaq (4 titoli), Tim Duncan (ben 5 anelli), e LeBron James, senza contare i vari Patrick Ewing, Chris Webber, Allen Iverson, Yao Ming, tutta gente che non ha conquistato l’agognato anello, ma che ha gavazzato per anni.

Come dimenticare poi le scelte più recenti, da Derrick Rose a Blake Griffin, John Wall, Anthony Davis e Kyrie Irving (stelle che hanno dinanzi anni per tentare l’assalto alle Finali NBA), oppure alcuni casi sfortunati, come l’immenso Danny Manning, che avrebbe potuto dominare, ma si distrusse un ginocchio, o Greg Oden, che l’NBA l’ha solo costeggiata.

È indubbio che, in generale, chi sceglie per primo rimedia ottimi giocatori, a meno d’esser così sprovveduto da tirarsi una badilata sui piedi, in modo colpevole (Chris Grant, con la chiamata di Anthony Bennett, o MJ, con Kwame Brown) o colposo (i Clips con Michael Olowokandi, i Nets con Derrick Coleman).

Così, molte squadre si lanciano entusiaste in operazioni di tanking (o rebuilding, come piace dire ai GM) più o meno spinto e dichiarato, sebbene, in realtà, non ci siano prove del fatto che “ricostruire” sia la strategia migliore per vincere.

Quattro anni dopo aver scelto con una top-3 pick, solo il 31% delle squadre fa i Playoffs. Tra queste, le uniche a passare il secondo turno sono state San Antonio, nel 1999, e Detroit nel 2004 (ma la loro seconda scelta assoluta, Darko Milicic, scaldava la panchina).

Dalla fusione tra ABA e NBA, nel 1976, 51 squadre hanno chiuso con meno di venti vittorie, e di queste, solo una ha vinto il titolo nei cinque anni successivi: si tratta dei Miami Heat (2007-08) dei Big Three, che però non passarono per il draft, ma per la firma di LeBron James e Chris Bosh.

Dal 1985 a oggi, solamente due formazioni hanno vinto il titolo NBA con meno del 66% di vittorie in regular season (sono i Rockets del 1995 e gli Heat di undici anni dopo), equivalenti –al netto dei lockout– a 54 vittorie, raggiunte, in questi ultimi trent’anni, da un 20% di squadre che possiamo considerare d’élite.

Dal 1985 a oggi, il 90% delle franchigie che hanno vinto meno di 25 partite in una stagione non hanno raggiunto le fatidiche 54 vittorie nel giro di cinque anni.

I parametri che abbiamo preso in considerazione non sono gli unici possibili, e non pretendono di rivelare la Verità, ma denotano un trend abbastanza chiaro: le pessime squadre tendono a rimanere tali, anche dopo aver scelto alto al draft.

Entro la scadenza del contratto da rookie della propria stella, bisogna aver fatto qualcosa per convincerla a ri-firmare, pena, vederla partire verso pascoli più verdi, ma non è facile costruire una formazione d’alto livello in poche stagioni, e lo è ancora meno se ci si è sbarazzati di tutti quei buoni giocatori che avrebbero reso impossibile il tanking “programmato”.

Capita spesso di sentir ripetere che, in NBA, è essenziale tenersi alla larga dalla mediocrità; o si è in grado di competere ai massimi livelli, oppure è meglio azzerare tutto e ripartire dal draft.

Alla Sloan Sports Analytics Conference del 2012, Kevin Pritchard, in passato dirigente dei Trail Blazers e oggi GM di Indiana, ha ripetuto che è vitale evitare di rimanere intrappolati nella mediocritas, e come lui la pensano in tanti.

A ben vedere, se prendiamo in considerazione le formazioni che, negli ultimi trent’anni, hanno vinto tra 34 e 49 partite, scopriamo che, dopo 5 anni, il 19.8% di loro ha raggiunto quota 54 vittorie (contro il 10% delle squadre che partivano da 25 vittorie).

Atlanta, che oggi è una credibile candidata a vincere l’Est, è esattamente questo genere di squadra: hanno vinto tra le 38 e le 44 partite negli ultimi 4 anni, e attualmente viaggiano al 79% di vittorie.

Sono migliorati con scelte oculate al draft (Dennis Schroder, scelto alla 17), con la free agency (Paul Millsap) e con gli scambi (Kyle Korver). Lo stesso può dirsi per i Memphis Grizzlies, che sono cresciuti grazie ad un mix di free agent (Tony Allen), trade (Zach Randolph e Marc Gasol), e di draft (Mike Conley).

Il segreto di Pulcinella è che, dal 1985 ad oggi, solo gli Spurs hanno vinto con in squadra una propria prima scelta assoluta (ne avevano due, Robinson e Duncan). Tutte le altre grandi prime scelte, da Ewing a Webber, da LeBron a O’Neal, o non hanno vinto, oppure per farlo hanno cambiato maglia.

Per giunta, gli Spurs arrivarono alla prima scelta del 1997 in modo anomalo, a seguito degli infortuni che falcidiarono un roster eccellente, che, recuperati tutti gli effettivi, nel giro di due anni vinse il titolo NBA; considerarli un esempio di tanking vincente sarebbe prendere lucciole per lanterne.

A Sam Hinkie, il giovane GM di Philadelphia cresciuto alla scuola di Daryl Morey, questi discorsi interessano il giusto.

Hinkie è convinto di poter battere il sistema mettendo in conto annate perdenti e accumulando scelte; tuttavia non sempre ai top-picks corrispondono i giocatori migliori, e c’è un margine di fortuna da mettere in conto; Paul Pierce (scelto alla 10), Dirk Nowitzki (alla 9), Kobe Bryant (alla 13) e Dwayne Wade (chiamata numero 5) sono stati snobbati dalle squadre vincitrici della lottery, ma hanno fatto la fortuna delle rispettive formazioni.

In passato i Warriors hanno tankato senza mai vincere la lottery, ma si sono comunque ritrovati con Steph Curry alla 7 e Klay Thompson alla 11, oltre ad Harrison Barnes (chiamato alla 7) e Draymond Green (selezione numero 35).

Con la prima scelta assoluta, i Blazers scelsero Gregg Oden; quattro anni più tardi, con la sesta chiamata, selezionarono Damian Lillard, e non c’è bisogno di dire chi dei due abbia avuto più impatto.

Non è la prima scelta assoluta in quanto tale a fare la differenza (e nemmeno le prime posizioni: sono solo tre i giocatori scelti tra la seconda e la quarta selezione ad aver vinto il titolo con la squadra che li aveva chiamati, e sono Kidd –dopo 17 anni!-, Milicic, e Sean Elliott), quanto la bravura nel costruire.

È vero che senza una superstar è quasi impossibile pensare di celebrare un titolo NBA, ma non basta avere in squadra un futuro Hall-of-Famer per garantirsi il successo, e non è detto che per selezionarlo occorra la prima scelta.

Il grande campione è solo uno degli ingredienti che rendono vincente una squadra; gli altri? La disponibilità al sacrificio, chimica offensiva e difensiva, giocatori con mentalità vincente, e un allenatore di livello.

A questo punto, è importante sgombrare il campo dagli equivoci e chiarire che Sam Hinkie non ha mai detto a Brett Brown e ai giocatori di perdere il più possibile.

Semplicemente, ha ceduto i giocatori che potevano valere qualche vittoria nell’immediato, come Jrue Holiday, Thaddeus Young, Spencer Hawes, Evan Turner, e, ora anche Michael Carter-Williams e K.J. McDaniels.

Inoltre, ha assunto Brett Brown con un contratto quadriennale, senza il quale, dice Brown, “Non avrei accettato questo lavoro. Mi arrabbio quando la gente parla di costruire una cultura, perché serve tempo”. Se poi si continuano a scambiare i giocatori, per perdere il più possibile, i tempi si dilatano.

Intanto, Hinkie ha riempito lo staff di Phila di matematici, esperti di scienze cognitive, statistici e anche un Navy SEAL. Il nuovo management analizza tutto, addirittura monitora le ore di sonno dei giocatori, e grazie a Lance Pearson e Vance Walberg, ha implementato una “effort chart”, che misura ogni azione di ogni Sixier secondo una serie di parametri, una versione più specializzata della tecnologia EPV.

Brown e il front-office non incoraggiano i giocatori a perdere, ma è palese che abbiano costruito una squadra che non può vincere.

Hinkie, brillante laureato della Business School di Stanford, dice che quello dei 76ers è un “esperimento scientifico”. L’idea è chiaramente quella di accumulare talento, liberare spazio salariale (da usare per assorbire contratti che gli altri non gradiscono, come quello di JaVale McGee, ottenendo in cambio altre scelte) per poi compiere una cernita.

Tankare in modo scientifico può funzionare?

Esiste un (parziale) precedente a quello che stanno facendo i Sixiers, ed è rappresentato dai Boston Celtics di Danny Ainge; nel 2007, i bianco-verdi avevano accumulato draft-picks, pur trattenendo Paul Pierce. Scambiarono Jeff Green con Ray Allen, e poi impacchettarono un po’ di “talento” (tra cui Al Jefferson, ma anche parecchio ciarpame) in direzione Minneapolis e portarono Kevin Garnett in Massachusetts.

Nel 2013 Hinkie si presentò al colloquio con la proprietà dei Sixers armato di grafici che mostravano quel che avevano appena fatto gli Houston Rockets, ammassando scelte, apparentemente preparandosi a tankare, salvo poi virare bruscamente e usarle per cogliere l’opportunità di ottenere James Harden.

Rispetto ad Ainge e Morey, Hinkie è ancor più deliberato: Philadelphia è strategicamente collocata in modo tale da poter fare razzia di tutti i giocatori che riterrà interessanti nelle prossime tre stagioni, incluse molte scommesse al secondo giro. Il ciclo (scambiare giocatori in cambio di scelte) continuerà finché Hinkie non riterrà di aver trovato i giocatori dai quali ripartire.

L’idea ha del merito teorico, ma non è scontato che poi si traduca in un titolo NBA, perché Phila sta perseguendo il proprio modello gestionale in modo estremo, come visto alla trade deadline, quando Hinkie si è sbarazzato di alcuni dei giocatori migliori (MCW e McDaniels) in cambio di altri picks.

Anche Boston e i Lakers perdono, ma si limitano a cavalcare la situazione (per Los Angeles, gli infortuni di Nash, Bryant e Julius Randle, mentre per Boston, l’esigenza di scambiare Rajon Rondo prima della scadenza contrattuale) anziché buttarcisi a capofitto; a loro volta, i Jazz stanno perdendo molto e di certo non disdegnano una scelta alta al draft ’15, ma hanno già in squadra Burks, Exum, Gobert, Favors e Gordon Hayward.

Quello che sta facendo Philadelphia mira a garantirsi scelte, ma, ammesso e non concesso che si traducano in un giocatore for the ages, manca tutto il resto.

Secondo Brown: “Stiamo cercando di capire che giocatori siano Embiid, Carter-Williams, Saric, Noel. Vogliamo essere certi che, quando i nostri ragazzi matureranno, o quando un free agent vorrà venire a Philadelphia, sapremo gestire la situazione, ma nessuno di noi è certo al 100% che ci riusciremo”.

Questa strategia ha delle controindicazioni. I giocatori si stanno abituando a perdere.

Le prime sconfitte bruciano, ma dopo uno-due anni in una squadra materasso, qualunque giocatore (eccezion fatta, forse, per i Kobe Bryant o i Kevin Garnett) ci fa il callo, ed è opinione corrente tra gli addetti ai lavori che il primo triennio NBA di un giocatore ne condizioni l’imprinting, orientandone le attitudini.

Perdere sempre, senza la guida di un veterano (come furono Lee per i Warriors, e Collison per i Thunder), è la ricetta giusta per maturare cattive abitudini (aiutare poco e male, fare cherry-picking, difendere muovendo le braccia anziché le gambe, pensare ai numeri prima che alla squadra, niente extra-pass) che segnano una carriera.

L’unico giocatore con esperienza presente a roster è il trentaquattrenne Jason Richardson, che è fermo da due anni; per il suo compleanno, i compagni gli hanno regalato una confezione di pannoloni (quando si dice il rispetto).

I Celtics del 2007 risolsero il problema alla radice: si sbarazzarono dei giocatori che avevano allevato a pane e sconfitte spendendoli ai T-Wolves in cambio di Kevin Garnett. Hinkie invece se ne sta liberando in cambio di altre scelte, ma così facendo, quando Philadelphia metterà le mani sui giocatori che vuole veramente, sarà di fatto una expansion-team, oppure una squadra imbottita di giocatori assuefatti alle sconfitte.

La lista di buoni giocatori dei quali Philadelphia si è sbarazzata inizia ad essere lunga; siamo certi che le scelte per le quali sono stati scambiati varranno più di loro?

In fondo, i 76ers avrebbero potuto scegliere Giannis Antetokounmpo anziché Carter-Willams, e nel 2014 hanno selezionato Joel Embiid, che è fermo per problemi alla schiena, è ingrassato paurosamente, e continua a twittare fesserie. Forse Embiid è davvero il nuovo Olajuwon, ma potrebbe benissimo rivelarsi il nuovo Olowokandi, e in tal caso, i Sixers avrebbero solo sprecato tempo e due scelte.

Hinkie è uno scout infaticabile, quindi è possibile che, ragionando sui grandi numeri, faccia buon uso delle scelte che sta accatastando, ma la storia NBA è piena di squadre con roster fantastici che non hanno vinto, come i Blazers del 2000, i Kings del 2002-03, i Lakers del 2004.

Inoltre, come detto, scovare il fuoriclasse è solo l’inizio: gli Orlando Magic pensavano d’aver davanti anni e anni per provare a vincere con Shaquille O’Neal, e si ritrovarono con il cerino in mano; i Cleveland Cavs pensavano che LeBron li avrebbe aiutati a vincere finalmente qualcosa, e invece James si trasferì a South Beach.

Persino un ottimo GM come Sam Presti non dorme sonni tranquilli a causa dell’approssimarsi della scadenza contrattuale di Kevin Durant.

I 76ers sembrano intenzionati a continuare così finché non avranno agguantato l’ambito fenomeno, ma potrebbero volerci anni e anni, durante i quali si costringe l’abbonato a guardare una squadra indegna, in cui militano giocatori che domani potrebbero essere altrove.

A Philadelphia vendono merchandising che recita uno slogan spiritoso: “Avevo un sogno, ma Hinkie l’ha scambiato per una seconda scelta“.

Nessuna lega professionistica dovrebbe mai creare degli incentivi a perdere.

In un memorabile scambio di corrispondenza con Bill Simmons, Malcolm Gladwell scriveva: “L’idea di assegnare le scelte in senso opposto al record, per quanto possa suonare moralmente giusto, crea danni al gioco, che non sono immediatamente visibili. Non si può costruire un sistema che premi le sconfitte. Gli economisti se ne preoccupano continuamente, in termini di moral hazard, e cioè l’idea che se assicuri qualcuno contro il rischio, questi diverrà più propenso a prendere decisioni rischiose. Se salvi le banche quando prendono decisioni rischiose e fanno scelte stupide, continueranno a farlo; se mi dai una scelta in lottery per essere stato un GM atroce, dov’è il mio incentivo a non essere un GM atroce?”.

Posto che i 76ers (oppure i Jazz, i Lakers, Boston e i Knicks) rispettano le regole, è evidente che programmare sconfitte va a detrimento della competitività della NBA e della qualità del prodotto.

Le regole attuali incoraggiano quello che gli americani chiamano bottom-out, cioè toccare il fondo. Abbiamo messo in discussione la bontà di questa strategia con i numeri, ma se molte squadre insistono a perseguirla nel chimerico tentativo di trovare “il prossimo Duncan”, spetta ad Adam Silver eliminare questo incentivo.

Anche se la riunione autunnale dei proprietari non ha raccolto i voti necessari per rivedere il meccanismo della lottery, nelle alte sfere dell’Olympic Tower imperversa il dibattito su come eliminare il tanking.

Una delle proposte consiste nel ruotare la prima scelta assoluta tra tutte le trenta franchigie, prescindendo dal record. Altri invece propugnano una serie di correttivi che alterino le probabilità, oppure un meccanismo più simile alla free-agency, ma con dei limiti all’ammontare dei contratti.

Dal canto nostro, siamo favorevoli ad assegnare più palline nell’urna alle migliori squadre escluse dai Playoffs, invitando i GM a ristrutturare, anziché demolire.

Programmare d’arrivare noni, infatti, è molto più difficile che costruire un roster perdente (Adam Silver avrebbe gioco facile a smascherare e punire chi, da ottavo, dovesse avere la bella pensata di tener fuori i titolari a un paio di partite dalla fine) e si traccerebbe una linea netta tra chi sa costruire e chi fa scelte sbagliate, per poi fingere di seguire un’eterna rebuilding strategy.

8 thoughts on “Draft, tanking e titoli NBA

  1. Bell’articolo…
    l’idea di dare più palline alle migliori che rimangono fuori dai playoff mi sembra molto buona…cosi tutti lottano per qualcosa…
    il dare più possibilità all’ultima…vedendo le statistiche…non mi sembra un’idea geniale…
    su i Sixers…mi dispiace ma non li capisco…
    forse hanno visto qualcosa di negativo in MCW e McDaniels .. non capisco la cessione…
    MCW mi sembra un talento assoluto…
    vediamo cosa il futuro ci dirà…

  2. Articolo meraviglioso…
    in pratica hinkie sta tentando di essere il billy beane dellanba.?

  3. Complimenti per l’articolo.
    L’Nba degli ultimi 5-6 anni non è più la stessa Nba dei Jordan e degli Olajuwon, sia per quanto riguarda la mobilità dei giocatori di ottimo calibro (e l’estinzione in corso dei “giocatori-bandiera”), sia per una conseguente isteria gestionale a scapito della progettazione a medio termine. Ne consegue che l’utopia di costruire un team vincente con il draft, pescando il “titano del futuro” è piuttosto anacronistica, anche perché lo scouting non è una scienza esatta e l’ordine delle scelte non rispecchia mai (o quasi mai?) il valore dei giocatori. Eppure il tanking ha ancora i suoi adepti… probabilmente finirà con il passare di moda quando la casistica recente diventerà più sostanziosa…

    P.s. Personalmente, l’EPV lo vedo più adatto ai videogames che al basket giocato “live”…

  4. Complimenti per l’articolo!
    Io darei uguale probabilità di scegliere alle franchigie che rimangono fuori dai playoff.
    E poi forse 30 franchigie sono troppe, per non parlare della presenza della luxury tax… ma questi sono un altri problemi…

  5. Fraccu, sono d’accordo per quanto riguarda l’isteria gestionale, meno sul fatto che le bandiere siano in estinzione. La lista dei giocatori più fedeli è dominata da gente che è ancora in campo, o si è ritirata da poco, perché in realtà, ce ne sono sempre state poche.
    Sull’EPV…mixed feelings. Continuo a pensare che ci siano degli intangibles o delle giocate che, magari, sono in linea teorica sbagliate, ma allo stesso tempo, vanno fatte (perché mandano un messaggio, perché aiutano un compagno, etc).
    L’importante è non cominciare a credere che questi strumenti catturino la Verità, o che siano più di quel che sono, ossia uno strumento, al pari della lavagnetta o della palla medica.

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