Capita, a chi non segue il basket, di faticare a capire perché le franchigie NBA si affannino tanto a vincere il più possibile in una massacrante Regular Season da 82 partite, se poi il titolo NBA (l’unico vero trofeo assegnato nel corso della stagione) lo conquista chi trionfa nei Playoffs.

Gli appassionati, invece, sanno che la Regular Season (per quanto, effettivamente, sia forse troppo lunga) è una marcia d’avvicinamento, utile a rodare certi meccanismi, e che consente di guadagnarsi il prezioso “fattore campo”, magari anche per il solo primo turno.

Dal 2003, i Playoffs NBA prevedono uno schema uniforme, con tutte le serie al meglio di 7 partite (fino all’anno precedente, il primo turno era al meglio delle 5) secondo il formato 2-2-1-1-1 che oggi viene adoperato anche in Finale.

Le tre vincitrici di Division di ciascuna Conference, hanno garantito un posto tra le prime quattro, il che significa che può capitare che la testa di serie numero 5 abbia un record migliore della testa di serie numero 4. Tolta questa eccezione, si va dal miglior al peggior record (l’ottavo); vincere molto in Regular Season, quindi, significa assicurarsi qualche turno contro squadre meno forti, e soprattutto, garantirsi 4 gare su 7 in casa.

Dean Oliver, il principale esegeta delle statistiche moderne della pallacanestro, ha identificato quattro fattori (i suoi “four factors”) che sarebbero i parametri (per possesso, e non a partita) da tenere sotto controllo per cercare di vincere: sono la percentuale dal campo effettiva, la percentuale di palle perse, la percentuale di rimbalzi e il fattore tiri-liberi.

È possibile che a questi quattro, se ne assommi un quinto, il fattore campo? In fondo, anch’esso si conquista gara dopo gara, e va confermato ogni sera (proprio come una buona difesa o una bella percentuale dal campo), e offre a chi lo detiene un vantaggio contro gli avversari.

C’è chi la pensa in modo diametralmente opposto, come Drew Gooden, dei Wizards:”Ogni serie importante che ho vinto in carriera, era iniziata in trasferta. Molte serie che ho perso, le ho iniziate comodamente davanti al pubblico di casa”. In effetti, il vantaggio del campo è stato un non-fattore nella sfida con i Raptors.

Dal 2010-11, tuttavia, le franchigie NBA vincono una media di 7.3 partite in più in casa rispetto che in trasferta. I motivi sono molti: giocare davanti al pubblico amico è più facile, ci si allena nelle proprie strutture, non si deve viaggiare, e talora si beneficia del famoso bias degli arbitri (noi forse parleremmo di “sudditanza”, ma meglio lasciar stare), inclini a fischiare più falli contro la squadra ospite che quella domestica.

Esistono studi che si sono occupati dell’impatto del contesto sull’arbitraggio: tra il 2003 e il 2011, le zebre hanno fischiato di media 22.15 falli alle squadre in trasferta, contro 21.13 alla formazione ospitante. Non è una differenza abissale, ma esiste nondimeno una tendenza.

Possiamo quindi dire che sì, il fattore campo si traduce in alcuni vantaggi tangibili, tuttavia, il solo home-court-advantage non segna irrimediabilmente una serie; se una squadra vince 4-0 o 4-1, a determinare il risultato non è certo in quale palazzetto inizia la serie, quanto il divario (sia esso tecnico, d’esperienza o di motivazioni) tra le due formazioni in campo.

Solo cinque volte in tutta la storia NBA è capitato che l’ottava testa di serie superasse il primo turno (nel 1994 riuscirono nell’impresa i Nuggets, nel 1999 i Knicks, che poi arrivarono fino alla Finale. Nel 2007 i Warriors sorpresero i Mavs, nel 2011 fu il turno dei Grizzlies e nel 2012 i 76ers eliminarono Chicago, dopo che Derrick Rose subì il famoso infortunio di Gara 1).

Il vero vantaggio del fattore campo tende a emergere nelle serie più equilibrate, quando i dettagli fanno la differenza e le serie tendono a diventare lunghe (arrivano cioè a Gara 6 o 7).

Disputare in casa Gara 1, 2, 5 e 7 non significa avere in tasca la qualificazione al turno successivo, ma certamente garantisce una posizione iniziale di vantaggio strategico; starà poi a chi scende in campo sfruttare al meglio il privilegio ottenuto in base al record di Regular Season e mettere l’avversario con le spalle al muro.

Per Memphis, franchigia forte in casa (11 vittorie in più rispetto a quelle in trasferta), è un grande vantaggio giocare al FedEx Forum 4 partite su 7, perché anche i Blazers sono meglio in Oregon che in trasferta, dove hanno vinto 13 gare in meno che tra le mura del Moda Center di Portland.

La serie tra Clippers e Spurs era invece destinata a durare indipendentemente dal fattore campo, perché si fronteggiano due squadre dal record simile e che non difendono molto bene il campo di casa (al momento di scrivere siamo 1-2 a Los Angeles, e 1-1 in Texas).

L’Home-court-advantage può influire in modi diversi, in base alla piega che prende la sfida: sull’1-1, l’inerzia della serie è in bilico, e la squadra che aveva vantaggio del campo si sente più fragile, mentre sullo 0-2 l’approccio psicologico delle due formazioni (e del pubblico) sarà completamente diverso.

In totale, dall’introduzione di quattro turni al meglio di 7, solo il 21% delle serie è finita in sette partite (37 su 180), e solo tre volte la squadra col vantaggio del campo ha vinto tutte le partite in casa, il che significa che in 177 casi, la franchigia vincitrice ha dovuto conquistare almeno una volta il campo avversario.

Tra squadre di pari livello, è normale che il fattore campo salti in due o più occasioni
all’interno di una serie; si possono alternare vittorie e sconfitte, ci possono essere clamorose rimonte (nessuno ha però mai rimontato da 0-3), che apparentemente marginalizzano l’impatto dell’home-court-advantage.

In realtà, sul 3-3 il fattore campo diventa importantissimo: nelle ultime 4 stagioni, ci sono state 13 serie di Playoffs che sono finite alla settima, e, nonostante si affrontassero club di livello simile, il bilancio delle squadre di casa è di 10-3, ossia il 76%, che sale all’80% se si prendono in considerazione tutte le Gare 7 disputate dal 1948 ad oggi.

Se si considerano solo le “belle” tra squadre con uno scarto di non oltre 4 vittorie sul record di Regular Season (quindi, teoricamente, prendendo in considerazione duelli tra formazioni parimenti equipaggiate), la percentuale scende al 68%, ma rimane chiaro che vincere la bella in trasferta è impresa non da poco.

Gara 7 significa pressione psicologica, pubblico ostile, e anche qualche fischio arbitrale contro, quindi conquistarsi il diritto di giocarla in casa, di là dalla retorica, può davvero segnare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

È più facile vincere Gara 6 in trasferta (succede nel 51% dei casi), ma, d’altronde, chi è ospite alla sesta partita ha il fattore campo nella serie, e, spesso, sta conducendo sin dalla gara d’apertura e magari ha già sprecato un match-point per chiuderla.

Tutti questi dati vanno letti tenendo a mente che ad avere il fattore campo è, in linea di massima, la squadra più forte, quindi non è sempre agevole capire quanto del merito vada all’home-factor e quanto dipenda dalla superiorità di una franchigia sull’altra; comunque sia, anche sul 3 pari, chi dispone dell’home-factor ha un vantaggio che trova riscontro nei numeri e non solo nel mito sportivo del pubblico scatenato che trascina la squadra alla vittoria.

Tuttavia, esistono alcuni segnali che lasciano presagire un cambio di tendenza: nei Playoffs del 2014, le squadre con home-advantage hanno messo a segno un record di 50-39, che equivale al 56% di vittorie; risultato ragguardevole ma inferiore al dato storico, che si aggira attorno ad un ben più solido 65%.

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Posto che già dall’inizio degli anni novanta queste cifre sono in declino, il grafico evidenzia la picchiata dell’ultima stagione; si possono formulare alcune ipotesi sulle cause di quella che per il momento non è ancora un trend ben definito:

1- Le percentuali di vittoria della squadra di casa si sono abbassate a causa dell’uso del tiro da tre, che diminuisce l’impatto dell’arbitraggio (al riguardo, uno studio del 2013 di Michael Summers, pubblicato sull’American Journal of Management, indica che non c’è diretta correlazione tra vittorie e tiro dall’arco, ma in fondo lo sapevamo: non conta il volume di tiro, ma la percentuale di realizzazione), rispetto a quando ci si affidava prepotentemente alle conclusioni ravvicinate.

Negli anni novanta si cercavano tiri da sotto canestro e, nel quarto periodo, vigevano le temute no-fly-zone nei pressi del verniciato. Il tipo di arbitraggio (più o meno permissivo nei confronti dei vari Charles Oakley o Karl Malone) orientava la gara; le triple invece hanno una componente limitata di contatto fisico, rispetto ad un lay-up nel traffico, e l’accresciuta importanza del tiro da dietro l’arco potrebbe aver diminuito il peso di un metro arbitrale “domestico”.

2- Bill Simmons, di Grantland, offre una spiegazione più sociologica: a causa dei prezzi astronomici dei biglietti, il vecchio pubblico di abbonati storici è stato sostituito da gente in cerca di un evento di tendenza, più che di una partita di pallacanestro (fateci caso, quanta gente, con la partita in bilico, è inquadrata mentre chatta con aria annoiata, manco stesse alla pensilina dell’autobus?).

Il tifo si è fatto meno caldo che in passato (a New Orleans, con la squadra sotto 0-2 ma abbondantemente in partita, il terzo quarto è stato disputato davanti ad un palazzetto semideserto), e questo condiziona meno la squadra ospite rispetto ai tempi in cui Jack Nicholson rischiava la pelle presentandosi al Boston Garden a tifare Lakers, o Dennis Rodman sentiva epiteti irripetibili provenire dagli insospettabili spalti del Delta Center.

3- Una terza, possibile spiegazione, dipenderebbe dalla tecnologia usata per monitorare i bioritmi degli atleti e da un approccio più scientifico al riposo, che impone ai giocatori di ritirarsi presto anche quando ci si trova in città notturne come New York o Atlanta, e che aiuta a gestire meglio la fatica dei viaggi, ma che difficilmente può, da solo, giustificare un drastico cambio di rotta come quello in atto.

Può darsi che l’impatto dell’home-court-advantage si sia diluito per questi motivi o altri ancora (ad esempio, perché il controllo del nuovo Replay Center di Secaucus bilancia la tentazione degli arbitri di lisciare il pubblico), fatto sta che oggi sembra pesare meno che in passato, in attesa di avere un campione sufficiente per trarre delle conclusioni definitive.

Tuttavia, per quanto piccolo possa essere il beneficio, è chiaro che, in una competizione ad alto livello come i Playoffs NBA, anche il minimo vantaggio è prezioso e può essere decisivo, come sanno tutte le squadre che hanno provato la cocente delusione di una sconfitta alla settima partita.

Forse oggi il fattore campo indirizza in modo meno netto una serie (e per noi appassionati, questo è un bene, perché ci regala serie più incerte ed emozionanti), ma questo non l’ha reso meno ambito tra gli staff tecnici, che vogliono garantirsi quante più armi in faretra è possibile in vista di una sfida senza esclusione di colpi come un turno di Playoffs.

Per quanto giocare una Gara 7 lontano dal proprio pubblico possa essere meno penalizzante che in passato, disputarla tra le mura del proprio palazzetto continua ad essere certamente più rassicurante, e garantisce un edge psicologico sui rivali.

2 thoughts on “Focus: Quanto conta il fattore campo?

  1. Ottimo articolo, complimenti! Quel 68% di vittorie in gara 7 con squadre con meno di 4 partite di differenza in stagione e’ secondo me il numero più affidabile per pesare il valore del fattore campo. Unico appunto: secondo me il numero dei falli non è un buon indicatore del’arbitraggio casalingo, bensì una conseguenza dell’autoconvinzione di allenatori e giocatori: l’adagio dice di andare dentro se sei in casa e accontentarsi del jumper se sei fuori, e allenatori vecchia scuola secondo me lo consigliano ancora, quindi quel singolo fallo di differenza può essere dovuto a questa scelta dei giocatori, non a una presunta parzialità. Tanto più che se ti aspetti il fallo molti giocatori lo cercano, Ginobili docet (e Harden discet, superando il maestro ormai peraltro)

  2. Caro Claudio, grazie dei complimenti! Io sono dell’idea che ci siano tanti fattori in gioco (pubblico, psicologia, arbitri, stanchezza), che contribuiscono a produrre il fenomeno che chiamiamo “fattore campo”. I fischietti, che incidono statisticamente per 1 fallo di media contro gli ospiti (quindi in modo contenuto), sono uno di questi fattori, e non sono decisivi. Quello che dici non è in contraddizione, anzi; è vero che molte squadre diventano più passive in trasferta (paura? raccomandazioni dell’allenatore?), ma ci sono tanti fischi (piede fuori/dentro, contesa o time-out) che non centrano con l’aggressività. Non so perché, ma mi viene in mente Dick Bavetta al Madison Squadre Garden. =)

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