Quando Billy Cunningham, The Kangaroo Kid, nella primavera del 1979 pensò che sarebbe stato meglio far iniziare dalla panchina Bobby Jones, la forte ala proveniente l’anno precedente dai Nuggets, per dare il cambio a gente come Julius Erwing, Darryl Dawkins e Caldwell Jones, aveva un solo grande dubbio: come l’avrebbe presa Bobby?

Per fortuna Jones era una persona che amava il gioco, aveva sani valori e faceva beneficienza per più di un’istituzione religiosa, e così si adeguò di buon grado, aderendo al progetto di Cunningham e contribuendo a far diventare Philadelphia una delle franchigie più forti della lega per parecchi anni a venire, fino al culmine del titolo nel 1983.

Ma il fatto che coach Cunningham fosse preoccupato del contraccolpo che la notizia avrebbe potuto avere su uno dei suoi migliori uomini la dice tutta su quello che era l’NBA, quella stessa NBA che proprio nel 1983, l’anno del trionfo per i Sixers, decide di istituire il premio per il miglior “sesto uomo” della stagione, premio che finisce proprio in casa del signor Bobby Jones.

C’erano i titolari, e poi c’erano gli altri, le riserve, che erano certo utili se non fondamentali, ma che avevano uno status diverso. I più forti iniziavano la partita, gli altri sedevano in panchina. E il premio andava a consacrare il “migliore fra gli altri”, cioè fra quelli che non erano i più forti della lega.

Ma tutte le cose cambiano, e a volte sono proprio coloro che dovrebbero accorgersene per primi che si adeguano per ultimi.

Sono passati più di trent’anni da quando il premio per il miglior sesto uomo è nato, e la NBA non è più la stessa. I giocatori non sono più gli stessi, e i coach pure.

Adesso in una squadra non si ragiona più in termini di titolari e riserve, ma di quintetti. Ogni quintetto che sta in campo durante i 48 minuti di una partita deve avere un senso, uno o più punti di forza, e non è importante se in quel quintetto ci sono i tuoi cinque giocatori più forti oppure no.

L’importante è che abbia quel senso, altrimenti non funziona. Lo sanno i giocatori, lo sanno gli addetti ai lavori ma anche gran parte degli appassionati, tanto è vero che il primo, grezzo elemento statistico di valutazione dell’importanza di un giocatore rimane tutt’oggi il minutaggio, a prescindere dal fatto che si sia o meno iniziato la partita.

Eppure quel premio esiste ancora, e poco importa che nel corso degli anni si siano alternati nel suo albo d’oro alcuni grandi che non solo avrebbero potuto tranquillamente essere inseriti in un quintetto di partenza, ma che addirittura sono stati considerati fra i migliori giocatori dell’intera NBA.

Quando il premio è stato assegnato a Manu Ginobili, nel 2008, stavamo parlando di un giocatore che non era a fine carriera, che aveva già vinto tre titoli, era stato un All Star, e che per stare a quello stesso 2008 era stato inserito nel miglior terzo quintetto della lega. Insomma, stavamo parlando di uno dei più forti, e il fatto che partisse dalla panchina era una mera decisione tattica.

E ancora quando nel 2012 il premio fu assegnato a James Harden stavamo parlando di un signore che quell’anno aveva giocato quasi 32 minuti a partita, con oltre 20 punti ad allacciata di scarpe nei playoffs. Anche qui il fatto che partisse dalla panchina era evidentemente solo incidentale.

Qualcuno può ancora dire che questi, e altri campioni che si sono succeduti nell’albo d’oro come “best sixth man”, sono da considerarsi “i primi fra gli altri”? E se non lo sono, quale senso può ancora avere un premio del genere se non quello di provare a dividere ancora i giocatori in due status che non hanno motivo di esistere?

Quest’anno ha vinto Lou Williams e Isiah Thomas non è stato contento, perché un premio è sempre un premio, ma la sostanza non cambia. A volte sono i più bravi a non capire quando il loro mondo sta cambiando.

 

One thought on “Focus: il premio al miglior 6° uomo, ieri e oggi

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