Le Finals 2015, vinte con pieno merito dai Golden State Warriors del fantastico Steph Curry, hanno ancora una volta chiarito il concetto fondamentale di questo gioco, urlandolo al mondo al cospetto del più forte di tutti: il basket è uno sport di squadra, in cui la squadra batte sempre il singolo.

Per la prima volta, uno stesso giocatore ha primeggiato nelle categorie di punti, assist e rimbalzi di entrambe le squadre e, quello stesso giocatore, ha chiuso le finali a 35.8-13.3-8.8, più di ogni altro nella storia, segnando o assistendo il 64% di tutti i canestri dei suoi. Ma non è bastato, hanno vinto gli altri.

Il giocatore in questione è Lebron James, e i numeri non dicono tutto dal momento che nelle prime 3 gare abbiamo assistito ad un dominio jordanesco, in cui il King ha controllato fisicamente, tecnicamente e mentalmente le operazioni, seguite da una gara 4 sottomedia e poi, di nuovo, “novello Atlante” (cit.) negli ultimi 2 episodi della serie.

Ha combattuto contro i mulini a vento senza mai arrendersi all’evidenza: questi Cavs, monchi e sfiancati da una post season crudele quanto a infortuni, sono poca roba soprattutto rispetto a questi Warriors.

Dellavedova e Mozgov, sono due undrafted; JR Smith e Shumpert vengono dal deserto tecnico dei Knicks e hanno clamorosamente steccato l’appuntamento più importante; Jones e Miller sono due veterani dal passato glorioso e la schiena a pezzi; Thompson è l’unico giocatore di alto livello, ma si sta sempre parlando di uno specialista dalle mani di ghisa.

Irving, all star e tra i prossimi dominatori della lega, è arrivato acciaccato ai playoff ed è definitivamente uscito di scena in gara1, Love ha giocato solo il primo turno: non solo qualitativamente, ma anche dal punto di vista numerico i Cavaliers hanno subito, giocando in 7 fin dalle semifinali di Conference.

Chi ama il basket ringrazia Lebron per aver trasformato una finale a senso unico in una battaglia epica, una batosta annunciata in una sconfitta eroica.

L’allegra truppa di Steve Kerr si infilerà l’anello a fine Ottobre, mentre a James rimangono dei playoff da dominatore assoluto, un nuovo tassello alla sua grandezza statistica ma anche una nuova sconfitta in finale, col tassametro che è arrivato a 2 vinte e 4 perse.

Pur essendo in ottima compagnia (Elgin Baylor 0-7; Jerry West 1-8; Karl Malone 0-3; Wilt Chamberlain 2-4), è uno score che non può non stridere col valore del giocatore.

Per sedersi al tavolo dei grandissimi del gioco servono i numeri, al momento non del tutto favorevoli al Prescelto. I numeri non mentono mai, è vero, ma è anche vero che ogni serie, ogni finale e ogni annata fa storia a se e ogni vittoria/sconfitta può e deve essere contestualizzata.

Nel 2007 i Cavs erano troppo giovani, troppo poco competitivi e con troppa poca qualità per tener testa ad una delle versioni migliori degli Spurs del Pop: dal punto di vista statistico, negli ultimi 30 anni di Finals, quei Cavs di Boobie Gibson e Larry Hughes si classificano al 59’ posto sui 60 disponibili (FiveThirtyEight.com).

La versione 2015 non si discosta troppo da quella di 8 anni fa: il livello del supporting cast si piazza al posto 58.

Nel 2014 gli Spurs si sono dimostrati ingiocabili per gli Heat: 61% reale al tiro (Shaq&Kobe 2000 si fermano al 55%) contro Miami a fine corsa, con la lingua di fuori e scarichi mentalmente. James fu comunque l’unico a non sfigurare e l’ultimo ad arrendersi.

Quella che sembra essere l’unica vera macchia nel curriculum del nativo di Akron rimane quella rappresentata dalle finali 2011 contro quella fantastica banda di perdenti di successo rispondenti ai nomi di Nowitzki, Kidd, Marion, Chandler, Terry e Carlisle.

In quell’occasione i Miami Heat affondarono e James non solo non fu in grado di far nulla per salvare la situazione, anzi quella gara 5 con soli 8 punti a referto rimane ad oggi la sua ultima gara non in doppia cifra. Il tutto condito dalla decision dell’estate precedente e da atteggiamenti strafottenti in campo e fuori che hanno fatto colare a picco la sua popolarità.

Da li in avanti, ad onor del vero, si è assistito ad una lenta metamorfosi dell’uomo e del giocatore, che pian piano lo ha portato a smettere persino la fascetta dalla testa, e a concentrarsi solo sull’obiettivo finale: la vittoria dell’anello.

I dati statistici, fin da quando ha messo piede in questa lega, sono impressionanti. Al momento, conta 7 stagioni da almeno 25 punti 7 rimbalzi e 7 assist, cosa che si è verificata solamente altre 10 volte nella storia e 11 stagioni su 12 da 25-6-6 contro le 0 (zero) di qualsiasi altro giocatore dal 1993 ad oggi.

Per 8 volte ha guidato la classifica del plus/minus assoluto e la stagione 2009, playoff inclusi, è statisticamente la stagione migliore di sempre nell’NBA moderna.

Prendendo per buona la statistica avanzata PER [Player Efficience Rating: ideato da John Hollinger, è un valore all-in-one che compara giocatori diversi, con minutaggi diversi e che giocano in sistemi diversi, addizionando le componenti, ognuna con pesi specifici diversi e sottraendo le voci negative; il tutto tarato sui minuti in campo e sul numero dei possessi della squadra], nel basket moderno è secondo solamente a Michael Jordan come media, e nel 2009 ha fatto segnare il 4’ PER più alto di sempre (31,67).

In questa top 10 all time ci sono solamente altri 2 nomi oltre al suo, Mike e Wilt con i quali spartisce equamente le posizioni, e questo dovrebbe già rendere l’idea.

Ma “rings count”, e al momento James ha 2 anelli alle dita e almeno altre 3/4 stagioni di dominio.

Secondo le puntuali proiezioni di inizio stagione preparate da ESPN (ESPN Basketball Power Index) era lecito attendersi 4 finali e 2 titoli per le squadre di James, dunque avremmo i titoli che “doveva” vincere e 2 partecipazioni alle finals in più.

Inoltre, sempre secondo la già citata classifica stilata da FiveThirtyEight.com, James si sarebbe presentato da favorito in 2 delle 6 presenze. Non solo, in 3 delle sconfitte (2007, 2014, 2015), il prodotto di St Vincent St Mary è stato attorniato da 3 dei peggiori 8 supporting cast mai visti negli ultimi 30 anni di Finals.

Per fare un paragone, solo i Knicks sono riusciti a presentarsi in condizioni peggiori e sua maestà Jordan ha giocato le finali del secondo three-peat con 3 delle migliori 6 squadre in assoluto.

Sempre stando ai freddi numeri, degli 11 giocatori che hanno vinto almeno un MVP e hanno giocato almeno 5 finali, solamente il Prescelto e il leggendario Wilt Chamberlain hanno un record negativo (2 vinte e 4 perse per lui): in questa speciale classifica spiccano MJ, unico con il 100% (6-0) e il venerabile Bill Russell, con l’invidiabile record di 11-1; seguono Kobe 5-2, Larry Legend 3-2, Duncan 5-1, Shaq 4-2, Kareem 6-4 e Magic 5-4.

Il vero punto di domanda forse riguarda il perché, troppo spesso, James si sia ritrovato solo a combattere contro i mulini a vento e a dover subire brucianti sconfitte anche laddove, almeno dal punto di vista individuale, avrebbe meritato maggior fortuna.

E, più in generale, dando uno sguardo alla sua carriera, se sia lecito affermare che Lebron abbia raccolto meno di quanto non abbia seminato. Stando ai numeri visti brevemente in precedenza, la risposta è sì, ha raccolto meno di quanto non abbia seminato.

Spiegare il perché questo sia accaduto non è facile, specialmente stando alla larga della dialettica facilona lover/hater e vincente/perdente.

Una prima spiegazione può essere collegata al suo modo di fare basket: accentratore, totale e quindi dispendioso. Questo vale sia nel lungo periodo, col rischio di arrivare stanchi all’appuntamento decisivo, sia nel breve, all’interno di una partita in cui, spesso e volentieri, a James viene “richiesto” di portare palla, segnare 35 punti, difendere ed infilare in canestro decisivo.

Dall’altro lato, non bisogna dimenticare il discorso legato alla pressione mediatica, il circo mai visto che gravita intorno al personaggio King James.

In una NBA sempre più collegata e sempre più globale, il Prescelto è semplicemente obbligato a vincere sempre e, nella maggior parte dei casi, non ci sono scusanti che tengano: l’eroe è sempre chiamato all’impresa e, quando non ci riesce, non ci riesce perché è un eroe di cartone.

Il Re è accompagnato da pressioni e aspettative fuori da ogni logica fin da prima del suo ingresso tra i professionisti che, strada facendo, ha dimostrato di saper gestire, grazie ad un ego e ad una fiducia nei propri mezzi esagerati, cresciuti insieme alla consapevolezza della sua grandezza.

Lo stesso non si può dire per qualcuno dei suoi compagni, caduti vittima di questa sovraesposizione mediatica e della pressione, cecchini in regular season e battezzabili ai playoff (vero Mo Williams?).

Quanto a sconfitte è in ottima compagnia, se è vero che tutti, da Jordan a Kobe, da Duncan a Dirk hanno assaporato il gusto acre della batosta, ma le sue riecheggiano in questa grancassa.

È un fatto che James faccia poco per spegnere i riflettori su di se e che, chiunque giochi con lui, deve adattarsi a questo oltre che alla sua leadership emotiva e sportiva: che sia Wade, Bosh o Love le cifre individuali devono calare per rientrare nel progetto vincente di cui lui è l’unico capitano, gm e allenatore (vero Blatt?).

Lebron monopolizza, accentra e troppo spesso ha portato le sue squadre a giocare un basket anacronistico, 1 contro 5 in cui c’è un uno che crea gioco e 4 giocatori che devono farsi trovare pronti sugli scarichi per punire i raddoppi: in questo modo si sono succedute grandi imprese e amare sconfitte.

Lo squilibrio tra le due conference è un dato di fatto e, tranne notevoli eccezioni (Celtics, Heat), gli ultimi anni hanno quasi sempre visto in finale una squadra favorita da Ovest e un’altra da Est chiamata all’impresa: nell’era post-Jordan, West batte East 12-5.

James ha sempre giocato con il fuso orario di Manhattan, cosa che da un lato lo ha senza dubbio “aiutato” nel suo dominio, ma che ha anche fatto sì che squadre non pienamente all’altezza, giungessero all’ultimo e decisivo atto, basti pensare ai Cavs 2007 (e 2015), od anche a Nets e Phila di inizio millennio.

Prendendo per buona questa campagna appena conclusa, per battere i Bulls e per sweepare i campioni dell’Est basta (e avanza) il solito monumentale super James, ma lo stesso riesce solamente ad allungare la serie contro i lanciatissimi Warriors.

Troppo spesso nel giudicare un singolo ci si dimentica che il basket sia un gioco di squadra e che ci siano anche gli avversari i quali, talvolta, sono semplicemente più bravi, più pronti, più fortunati, più forti: al netto delle assenze dei Cavs, Golden State ha dominato la stagione chiudendo con il record di 83-20, il terzo di sempre.

Un titolo con i Cleveland Cavaliers, il primo per la città da tempo immemore, farebbe sedere Lebron James alla destra di MJ e, comunque, già adesso si sta parlando di un sicuro top 10 all time e top5 dell’NBA moderna, dal momento che sta monopolizzando un’epoca di basket che vede sul parquet mostri del calibro di Kobe e Duncan.

Monopolio mediatico, statistico e di presenza scenica, se è vero che è il termine di paragone e l’uomo da battere per chiunque in questa lega, che non si è (ancora) tradotto in dominio, dal momento che gli anelli sono 2, pochi per quanto fatto finora.

Sky’s the limit diceva Biggie, ma Lebron rischia di essere il meno ingioiellato nel pantheon degli immortali.

One thought on “La sfortuna di essere Lebron James

  1. ci siamo dimenticati il 39% dal campo o giù di li.. e di dire che kerr ha impostato la serie sul farsi battere da lebron e non dagli altri suoi compagni.
    cmq grandi finali per james, ha fatto tutto quanto doveva fare per vincere, a differenza dell’anno prima dove pur essendo il milgiore dei suoi si è limitato al compitino

Leave a Reply to hanamichi sakuragi Cancel reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.