Non dite che non l’avevo detto. Era il 30 novembre quando scrivevo che DeAndre Daniels di UConn era uno dei giocatori più sottovalutati della Ncaa. Adesso, con gli Huskies che sono approdati alla finale del Torneo prendendosi il lusso di stoppare l’incredibile serie di vittorie di Florida (30 di fila), se ne sono accorti in molti.

Però, diciamo la verità, alla vittoria di UConn credevano in pochi. Di sicuro ci credeva poco chi, come me, aveva visto giocare i Gators in stagione. Esperti, completi, fisici, con tiro e soprattutto con una difesa tritatutto capace di mandare all’aria i piani offensivi di squadroni titolati.

Certo, era vero che l’ultima squadra capace di battere Florida era stata proprio UConn, ma quella partita era stata davvero particolare e segnata nei minuti decisivi da un’azione da 4 punti (tripla più fallo) di Shabazz Napier. Come dire col senno di poi la vittoria di UConn era quasi sembrata un caso.

Un caso? Manco per niente. Anzi, per evitare di finire al cardiopalma come in quel 2 dicembre, UConn ha deciso di arrivare ai minuti finali con un vantaggio solido.

E’ finita 63-53 per Connecticut che evidentemente, lei sì, ci credeva e che ha giocato una partita eccezionale, di carattere, orgoglio, ma anche buon basket. Trainata da un Daniels monumentale (20 punti e 10 rimbalzi), oltre che dai soliti Napier (12 e 6 assist) e Ryan Boatright (13 con 6 rimbalzi).

Il merito principale però è di coach Kevin Ollie, perché solo uno con gli attributi quadrati inizia una semifinale di Torneo sotto 16-4 dopo 12 minuti e pur essendo un novellino (al suo secondo anno da capoallenatore) mantiene la calma convincendo i suoi che sì, tranquilli, si può fare. E poi c’è Daniels, che zitto zitto, nel frangente più delicato del match mette due triple (all’interno di un parziale di 11-0) che riportano gli Huskies a contatto: 16-15.

Florida da quel momento ha smesso di giocare la sua pallacanestro. E’ scattato qualcosa. Una di quelle cose che non si spiegano. Ma evidentemente in campo c’erano due squadre, una che ormai credeva di potercela fare e l’altra che temeva che effettivamente avrebbe potuto perdere.

Da quel momento si è giocata una semifinale grandiosa: i Gators attaccati alla loro difesa, con una muta di bracchi sempre schierata a inseguire per il campo Napier e UConn a interpretare le varie difese proposte da coach Billy Donovan e a fare (quasi) sempre la scelta giusta.

Nei momenti di difficoltà, per Florida, ha fatto un passo avanti il senior della squadra, il centro dal fisico scultoreo Patrick Young (19 punti e 5 rimbalzi), che ha sciorinato tutto il repertorio di un lungo: gancio di destro, semigancio di sinistro, affondata di potenza, oltre a precisione dalla lunetta.

Una spina nel fianco per Connecticut, che ha sofferto le pene dell’inferno per rimanere con la testa avanti. Ma ce l’ha fatta per tutto il secondo tempo. Complice uno Scottie Wilbekin non al meglio della condizione fisica, che non ha potuto portare il suo normale contributo (4 punti, 1 assist e 3 palle perse).

Aggiungiamo Michael Frazier, che dopo aver segnato la prima tripla della gara è sparito e Dorian Finney-Smith in una delle sue peggiori serate. Solo l’instancabile Casey Prather è riuscito a dare una mano a Young (15 punti), ma non è bastato.

L’attacco è risultato troppo ferraginoso, come dimostrano i soli 3 assist di squadra a fine partita. Dall’altra parte Napier e Boatright hanno trovato il bandolo della matassa, attaccando la 1-3-1 con sicurezza, alternando penetrazioni a tiri da fuori e soprattutto generando palle recuperate da cui hanno ricavato provvidenziali punti facili.

A fine gara Connecticut era la squadra che aveva interrotto la striscia di Florida, la prima dai tempi di Carmelo Anthony a schierare un giocatore da 20+10.

L’immagine chiave però era la faccia di Napier. Serio, concentrato, nessun sorriso. Un lungo abbraccio con Young e una conferenza stampa senza abbandonarsi alla gioia.

Lui è ancora in missione. Lui e Kevin Ollie devono far ricredere ancora un mucchio di gente.

Adesso c’è da affrontare l’armata dei freshmen di Kentucky, con un unico pensiero in testa, che è diventato anche un motto: “One more game, one more game”

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