Dalle parti di Ann Arbor, Michigan, si comincia a respirare una buona aria, una di quelle brezze che se ti metti a sognare un pochino di più del lecito rischia di portanti distante, in cerca di sogni di gloria che sembrano essere in un particolare anno alla portata del tuo programma di football preferito. Non sono che passate due settimane di campionato ed i Wolverines non hanno neanche cominciato il cammino all’interno della Big Ten, ma se le prime due uscite possono essere un’indicazione, l’entusiasmo provato in loco non può che essere ampiamente giustificato.
Sono desideri che se realizzati andrebbero a placare una sete di vittoria della conference che dura oramai da otto stagioni, decisamente troppe per le abitudini vincenti di questa università, che ha cominciato nel migliore dei modi questo 2013 ed ha tutta l’intenzione di terminarlo nel miglior modo possibile, restituendo all’ateneo il prestigio che in passato molti grandi hanno scritto con questi colori addosso.
La squadra sembra molto completa sotto tutti i punti di vista, si va quindi oltre agli exploit dei singoli che stiamo per analizzare, il discorso può tranquillamente essere allargato e generalizzato, facendo scomparire quasi del tutto i timori nati dal fatto che Michigan ai nastri di partenza presentava solo dieci elementi – cinque in attacco ed altrettanti in difesa – al rientro nei rispettivi ruoli e che quindi il fattore inesperienza si sarebbe potuto far sentire, penalizzando prima o dopo le aspettative del programma.
Le premesse offensive erano state chiare fin dagli inizi, coach Brady Hoke, sotto la guida del quale i Wolverines non hanno mai perso in casa, non aveva perso tempo a spiegare che dopo il termine della carriera collegiale di Denard Robinson e delle sue frequenti evoluzioni su corsa si sarebbe passati direttamente ad uno schieramento di tipo pro-style, con il quarterback a passare la maggior parte del proprio tempo con le mani sotto il centro e dando le chiavi del reparto in mano al junior Devin Gardner per una stagione intera, vedendo dove il ragazzo sarebbe stato capace di spingere il suo talento misurandosi anche con le grandi.
Sarà stata l’atmosfera delle grandi occasioni, o il fatto che alcuni giocatori di Michigan vestivano il numero di leggende della squadra in loro onore, oppure ancora l’arrivo della penultima (speriamo solo momentaneamente) puntata della lunghissima rivalità contro Notre Dame, fatto sta che lo scorso sabato notte i Wolverines hanno urlato alla nazione che non vanno assolutamente contati fuori e che su quei sogni di cui si parlava all’inizio, si sta lavorando con intensità al fine di tramutarli in realtà.
Gardner, già titolare in cinque partite nel 2012 in sostituzione dell’infortunato Robinson, ha dimostrato di portarsi appresso una sorta di aura magica, di essere uno di quei giocatori speciali che sono in grado di utilizzare i doni di madre natura per ottenere – e far ottenere ai compagni – dei grandi risultati, di rappresentare una minaccia dominante senza per questo cadere nella trappola dello stereotipo del quarterback di colore tutto gambe e niente braccio, confusione all’interno della quale era invece cascato a pennello il suo predecessore, che difatti, oltre a curarsi la depressione per la destinazione che la Nfl ha scelto per lui, cerca di ritagliarsi uno spazio da wide receiver nei Jacksonville Jaguars al piano superiore.
L’attacco gestito dal coordinator Al Borges, che già aveva schiantato (prevedibilmente) i cugini di Central Michigan, si è presentato senza timori reverenziali dinanzi ad una delle migliori difese (o almeno lo era nel 2012) di tutta America, quella di Notre Dame, che ripresentava quasi tutti i principali protagonisti della cavalcata in finale dello scorso anno, mettendo a referto 460 yards, 41 punti e producendo molteplici drive lunghi e soprattutto terminati in meta. Certo, ci è voluta tutta la collaborazione di un illuminato Jeremy Gallon, al quale deve aver fatto bene vestire il numero che fu di tale Desmond Howard, il senior ha difatti scritto cifre che in precedenza si era solo sognato di notte (184 yards e 3 mete, ne segnò 4 in tutto il campionato scorso) e fatto vedere che anche i piccoletti come lui meritano rispetto, perché con l’impegno si può arrivare dove si desidera, a patto di essere costanti e dediti alla causa. E lui, come ha pure sottolineato coach Hoke con quel suo modo di parlare flemmatico che non si può non stare a sentire per come caratterizza il personaggio, ha lavorato sodo per migliorarsi ogni giorno in cui gli è stato richiesto di farlo, ed è stato ripagato scrivendo un pezzo di storia davanti ai 115.109 appassionati che gremivano una Big House così colma come mai alcun luogo era stato in precedenza.
Gardner è stato ineccepibile anche se non esente da errori, ha giocato una partita eccellente sotto molti punti di vista, ha visto bene il campo a livello di letture e solo quando serviva si è messo a correre per portare a casa la pelle, meglio ancora un primo down. Il giovane quarterback è stato responsabile di tutti i touchdown segnati da Michigan, ed anche di quello che avrebbe potuto riaprire un discorso già chiuso da tempo. Il suo essere speciale lo ha difatti portato a connettere con il già citato Gallon per mete di 61, 12 e 13 yards rispettivamente, aggiungendovi quindi una segnatura personale arrivata con una corsa di 2 yards in seguito ad una piccola finta di arretramento per poi gettarsi centralmente nel corridoio lasciato libero.
Già che c’era, una meta l’ha regalata anche agli avversari gelando il proprio pubblico con una stupidaggine che spera di non ripetere e dalla quale avrà sicuramente tratto insegnamento, secondo il principio che spinge a liberarsi della palla in qualsiasi modo quando si è pressati da un difensore nella propria endzone prendendo una safety da 2 punti, il minore dei danni, anziché gettare l’ovale in aria per provocare il miglior gesto atletico della carriera del defensive tackle di 340 libbre in quella sera tuo avversario per una presa al volo del valore di sette punti. Va comunque detto che da quel grossolano errore Gardner si è ripreso con carattere, ed ha condotto con sicurezza la serie di giochi decisiva conclusasi con il suo quarto passaggio vincente, stavolta per Drew Di Leo, ragazzo che nello slot ha dimostrato di saperci lavorare bene.
Nonostante il gioco di corse sia stato tutto sommato produttivo (anche se lo zampino di Gardner ha migliorato non poco le statistiche finali) non ha particolarmente impressionato la prestazione del running back titolare, Fitzgerald Trouissant, che non ha quasi mai trovato varchi opportuni e che si è distinto solo per una corsa di 22 yards nel quarto periodo, tuttavia pervenuta nel drive decisivo. La nuova linea offensiva, che vede tre elementi praticamente privi di esperienza, ha giocato una buonissima gara ed il tackle sinistro Taylor Lewan, che alla prossima tornata di scelte Nfl non attenderà molto per essere chiamato, è stato come sempre il leader della compagnia.
Per misurarsi con le grandissime ci vuole anche una bella difesa, e l’inizio, seppure abbia messo nel contempo in mostra alcune lacune che potrebbero non essere aggiustabili, non è affatto stato malvagio. Notre Dame ha costruito dei drive interessanti che solo alcune decisioni discutibili dell’altrimenti positivo quarterback Tommy Rees e la mancanza di un valido gioco di corse sono andati a mortificare, il reparto ha concesso probabilmente troppo e la causa risale quasi esclusivamente alla mancanza pressoché totale di pressione da parte della linea difensiva, che al momento non ha quel playmaker in grado di produrre sack in doppia cifra, a meno che il velocissimo Frank Clark non decida di salire vertiginosamente di colpi.
Giocatori decisivi ve ne sono invece nelle retrovie, ed il cornerback Blake Countess è stato a dir poco decisivo per i suoi intercettando Rees in due distinte occasioni, ambedue coincise con due momenti molto importanti della partita. La squadra, da ambo i lati del campo, ha dimostrato carattere nel recuperare dagli errori commessi.
I Wolverines hanno davanti un calendario a breve termine che può tranquillamente vederli mantenere l’imbattibilità per altri tre turni, poi sarà necessario fare i conti con la Big Ten e le sue insidie presenti ad ogni angolo. Si inizia ad ottobre inoltrato contro Penn State in trasferta, si chiude all’ultima giornata di regular season contro Ohio State alla Big House, ed oltre al mantenimento dell’inviolabilità casalinga c’è da vincere una partita che potrebbe rivelarsi fondamentale per accedere alla finale di conference, magari ritrovandosi davanti nuovamente gli stessi Buckeyes qualche giorno più tardi.
Allora ne sapremo tutti di più, ed il magico Gardner avrà avuto le giuste opportunità di dimostrare che la sua magìa non svanirà all’interno di una serata speciale che aveva offerto il record di presenze ogni epoca per il college football, che rievocava grandi leggende del passato in blu e giallo, e che rappresentava (ripetiamo: speriamo solo momentaneamente) l’ultima partita ad Ann Arbor di una rivalità che dura solo da 126 anni.
Gli occhi suoi e dei compagni sono fissi sul trofeo. A quel viaggio al Lucas Oil Field di Indianapolis il prossimo 7 dicembre, ci tiene davvero tanto.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
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