Si, è proprio il caso di parlare di metodo, perché se c’è una cosa che il coach di Seattle ha perseguito fin dal suo ingresso in NFL è istituire una nuova metodologia nella gestione della squadra, cosa che tra l’altro già fece nella sua prima avventura da capo allenatore professionista, con i Jets nel 1994.
Già allora il rivoluzionario Pete Carroll troncò di netto con il passato e la rigidità che vigeva nel mondo del football aprendolo verso nuovi orizzonti; ”Era come fosse Chip Kelly prima di Chip Kelly” ha dichiarato Boomer Esiason , suo ex quarterback, in questi giorni, quando molti media americani hanno ripercorso la sua carriera e i fallimenti, o presunti tali, newyorkesi e bostoniani.
Presunti perché alla fine qualcosa di buono il coach che avrebbe poi riscritto la storia di Southern California, aveva fatto nel suo rapido passaggio in National Football League, conquistando prima di tutto l’amore e il rispetto eterno da parte di tanti suoi ex giocatori, e qualche risultato importante, passato sottotraccia a causa degli sfortunati epiloghi con cui si conclusero le sue avventure nei Jets e nei Patriots.
Con i primi dopo una buona partenza perse una partita, contro Miami nel weekend del Thanksgiving Day, e fu l’inizio della fine; alcuni giocatori cominciarono a remargli contro, chi l’aveva fortemente voluto nella Big Apple, il general manager Dick Steinberg, fu costretto ad allontanarsi dal team dopo che gli venne diagnosticato un tumore, e l’owner Leon Hess si fece, sbagliando, ammaliare dalla possibilità di mettere sotto contratto Rich Kotite, appena epurato dagli Eagles, coach più esperto e pronto per guidare la squadra verso il Super Bowl.
Una serie di circostanze che si tramutarono nel capolinea per la prima avventura professionistica di Carroll, tornato a guidare un team NFL nel 1997, quando prese in mano New England, guidandola a due partecipazioni playoffs consecutive, ’97 e ’98, prima che le cose si complicassero nel corso della sua terza stagione a Boston, quando gli fu fatale perdere le ultime sei partite di regular season, chiudendo con un record 8-8 che segnò la sua fine e l’inizio della gloriosa era Belichick in Massachussets.
Licenziamento, quello subito dalla famiglia Kraft, che assunse i contorni di una batosta, tanto che gli ci volle un intero anno prima di decidersi a tornare in sella e scendere nuovamente al piano di sotto, accettando l’offerta avanzatagli da Southern California, che gli propose di diventare head coach dei Trojans.
Scelta che oltre a rivelarsi azzeccata ha permesso a Carroll di affinare le sue doti di coach e trovare la combinazione ideale per rimettere in pista i Seattle Seahawks, dei quali ha assunto la guida nel 2010, accettando la sfida di ricreare, con successo, lo stesso ambiente che lo portò a conquistare un titolo nazionale con l’ateneo californiano e mantenerne, costantemente, il programma di football ad un livello di eccellenza impressionante.
Per molti che hanno osservato da vicino il mondo Seahawks pare di trovarsi dinnanzi ad una sorta di USC 2.0, viste le metodologie gestionali che il coach californiano ha adottato per rispondere alle necessità della squadra ed affrontare al meglio ogni situazione che si viene a creare, sia dentro che fuori il campo.
A prima vista il campo di allenamento di Seattle potrebbe sembrare una sorta di centro ricreativo, visto il sottofondo costante della musica che accompagna ogni singolo minuto della giornata trascorsa dai coach e dai giocatori, ma invece è solo una piccola parte della filosofia di coaching di Carroll, da sempre attento ad ogni piccolo particolare che possa far rendere al meglio i propri atleti.
Capita così di passare dal tradizionale rock’n’roll che si ascolta negli uffici dirigenziali al rock moderno, se non addirittura pesante, che aleggia sul terreno di gioco, fino ad arrivare negli spogliatoi, dove spopola il rap di un Marshawn Lynch segreto, in formato deejay; ruolo che strappa qualche sorriso anche ad un giocatore che sembra perennemente arrabbiato quando porta palla in partita.
Proprio The Beast, uno dei grandissimi protagonisti dell’esplosione di Seattle in queste ultime due stagioni, è stata una delle mosse più azzeccate della gestione Carroll, che decise di puntare fortemente sul runningback in uscita dai Buffalo Bills nonostante i tanti giudizi negativi degli addetti ai lavori, sui quali indubbiamente pesavano i ripetuti problemi off the field avuti dal ragazzo nel corso degl’anni.
Eppure il coach che lo aveva visto da vicino quando entrambi facevano parte dell’allora Pac-10, Lynch giocava a Berkley con i California Golden Bears, non ebbe dubbi sul suo ingaggio, rivelando che aveva già cercato di reclutarlo ai tempi della NCAA, quando provò, senza successo, a convincerlo a vestire la divisa dei rivali Trojans.
Una decisione nel perseguire quest’obiettivo che convinse anche il general manager John Schneider della bontà dell’investimento, con cui Seattle si assicurò un primo importante tassello della sua rinascita, nella quale ha sempre avuto un ruolo fondamentale proprio il direttore generale, l’altro principale artefice del successo di questi Seahawks.
Schneider, lavorando fianco a fianco con Carroll ha permesso alla squadra di rinforzarsi e diventare una delle migliori compagini della National Conference, distribuendo con attenzione le risorse economiche tra Draft e free agency, dove spesso la franchigia dello stato di Washington ha messo a segno colpi importantissimi per la propria crescita.
Ricevuta carta bianca dal proprietario Paul Allen la coppia ha potuto investire ingenti somme per assicurarsi alcuni tra i migliori free agents presenti sul mercato, andando a coprire quegli spot che erano rimasti vuoti nonostante l’ottimo lavoro svolto al Draft, evento che ha sempre portato ottimi prospetti in riva al Pacifico.
Degl’attuali componenti del roster dei Seahawks ben ventisei sono stati infatti selezionati nel corso dei sette round, ed altri nove sono invece giunti a Seattle dopo essere stati firmati come undrafted free agents, tipo i receiver Jermaine Kearse e Doug Baldwin, quest’ultimo grande protagonista del Championship vinto sui 49ers con 6 ricezioni e 106 yds all’attivo.
Il leading WR del match che ha permesso al proprio team di staccare il biglietto per il Grande Ballo arriva da Stanford University, la stessa che ha aperto le porte della NFL all’altro giocatore che si è conquistato le luci della ribalta domenica scorsa, Richard Sherman, punto di forza indiscutibile, e indissolubile, della difesa guidata dal coordinator Dan Quinn, nonché, probabilmente, miglior cornerback della lega.
Protagonista di un trash talk con Michael Crabtree che ha tenuto banco per tutta la settimana sui maggiori media d’oltreoceano, il prodotto dei Cardinal è la punta di diamante di un reparto costruito con tutti giocatori pescati ai round più bassi, ad eccezione di Earl Thomas, prima scelta del Draft 2011.
La free safety da Texas è l’unico prospetto delle secondarie giunto infatti a Seattle con la nomea di predestinato, una sorta di certezza in mezzo a tante scommesse tramutatesi ben presto in solide realtà, come il suo collega sul profondo Kam Chancellor, selezionato al quinto giro, lo stesso di Sherman, o i vari cornerbacks messisi in luce nel corso di questa stagione, a partire dal fourth rounder Walter Thurmond, fino a giungere ai carneadi da sesta tornata Jeremy Lane e Byron Maxwell, scelti per sostituire il sospeso Brandon Browner, riciclatosi dopo una buona prima parte di carriera professionistica in CFL.
Canada da dove arriva anche il tight end Luke Wilson e dove avrebbe potuto facilmente finire un talento del calibro del quasi omonimo Russell Wilson quarterback undersized che ha donato quella marcia in più ai Seahawks, integrandosi alla perfezione con gli schemi offensivi di Carroll, nei quali si è trovato a suo agio fin da subito, diventando uno dei migliori pitcher della lega.
Ex giocatore di baseball che non ha goduto di una grande ribalta a livello di college football, il talento da Wisconsin rappresenta forse la più bella scommessa vinta dal coach californiano, che ha dimostrato di aver speso non solo bene, ma benissimo, la terza scelta del Draft 2012 con la quale lo ha portato a Seattle, per aggiungere forse quell’ultimo tassello che mancava per rendere finalmente completi i suoi Seahawks.
Musica, intuizioni manageriali di altissimo livello ed una buona predisposizione verso i media le armi di una squadra che ad un certo punto dell’ultima regular season sembrava avere le caratteristiche necessarie per dominare la National Conference, lasciando agli avversari solo le briciole.
Briciole, si, come quelle che cura Carroll, uno da sempre attento ai dettagli ed ad ogni minimo particolare che possa interagire direttamente, o indirettamente, con il gioco; a chi gli ha chiesto il perché avesse deciso di concedere così tanta libertà ai suoi giocatori ha sempre risposto che ”per ottenere il massimo da degli atleti non sempre la soluzione migliore è quella di costringerli ad una condotta di vita rigida; a volte le loro vite sono già state difficili per quello che hanno vissuto fuori dal campo, se sul lavoro trovano un ambiente positivo, è più facile che rendano meglio. Cerco sempre di trovare nuovi spunti con cui coinvolgerli, per far breccia in loro ed ottenere, da loro, il massimo.”
Così si spiega la costante voglia di creare un ambiente ideale per i suoi giocatori, figlia di quell’approccio filosofico e in parte psicologico con cui il coach californiano affronta il suo lavoro, sempre costantemente accompagnato dalla musica, ormai una costante del suo ruolo di coach.
”La musica è sempre stata una parte importante del mio mondo, ed ho capito, con il passare degli anni, che il nostro gioco e l’ambiente in cui viviamo ha un suo ritmo. Impulsi e ritmo, entrambi fanno parte del suono e del rumore, fanno parte di un qualcosa, un qualcosa che noi sentiamo; così anni fa ho deciso, quando ero a South California, di inserire la musica nel mio programma, in ogni situazione possibile ed in qualsiasi forma, pensando a come avremmo potuto, io, gli allenatori, e i giocatori, trarre beneficio da questo. Ho letto, mi sono informato, ed ho trovato degli studi che spiegavano come le persone imparano più facilmente se sono ottimisti e rilassati, per questo ho puntato così tanto sulla musica, mi piace come i ragazzi rispondono ad essa, mi piace le sensazioni che mi da e che da alla mia squadra. Non tutti capiscono, ma i miei giocatori han dimostrato di lavorare meglio così, e inoltre, se riescono a mantenere una grande concentrazione quando c’è la musica di sottofondo, è più facile che lo facciano anche la domenica, quando scendono in campo.”
Un metodo di allenamento che finora pare aver avuto successo, almeno a Seattle, dove quel campo da basket che sembra essere rimasto l’unico segno del suo passaggio a New York, è costantemente popolato da giocatori in cerca di relax durante le pesanti sedute d’allenamento giornaliere; lì, tra i canestri e il rumore dei rimbalzi, con l’inseparabile colonna sonora musicale in sottofondo, si risolvono i problemi, si cementa il gruppo, e cresce la passione e la stima verso un coach agli antipodi, amato senza riserve da tutti i suoi giocatori, sia presenti che passati.
Così sono stati costruiti questi Seahawks vincenti.
Folgorato sulla via del football dai vecchi Guerin Sportivo negli anni ’80, ho riscoperto la NFL nel mio sperduto angolo tra le Langhe piemontesi tramite Telepiù, prima, e SKY, poi; fans dei Minnesota Vikings e della gloriosa Notre Dame ho conosciuto il mondo di Playitusa, con cui ho l’onore di collaborare dal 2004, in un freddo giorno dell’inverno 2003. Da allora non faccio altro che ringraziare Max GIordan…