Fermiamoci per un momento a riflettere su cosa sarebbe potuto accadere se i Seattle Seahawks avessero segnato la meta del sorpasso con meno di trenta secondi da giocare nell’ultimo Super Bowl. I New England Patriots, in tale casistica, sarebbero scesi a quota 3-3 nelle finalissime giocate con Bill Belichick quale allenatore e Tom Brady al timone dell’attacco, e nonostante le grandi imprese del recente passato, riuscite proprio a loro, ultima squadra in ordine cronologico a bissare un Vince Lombardi Trophy in stagioni consecutive (campionati 2003 e 2004), avremmo rischiato di parlarne non così bene, per quanto assurdo tutto questo possa sembrare.

Brady-SB36La loro era una dinastia lontana ormai una decade, costruita a partire dalla prima vittoria di sempre per l’organizzazione, quella contro i Rams, che come ha ricordato l’owner Robert Kraft ieri notte fu un successo particolare ed irripetibile per via degli eventi terroristici che avevano scosso profondamente gli Stati Uniti nel settembre precedente, e proseguita poi con le affermazioni su Carolina e Philadelphia, l’ideale completamento di un tris già di per sé difficilmente ripetibile. Simboli della continuità nell’era della free agency, i Patriots avrebbero tuttavia trascorso i dieci anni successivi a tentare di aggiudicarsi un altro trofeo, un’impresa che più non riusciva e più cominciava a diventare un mito da sfatare.

La partecipazione a nove partite di Championship AFC in quattordici stagioni, per quanto sia un stato traguardo tranquillamente definibile come fenomenale, non è mai bastato a placare una grossa delusione. C’era ancora lo spettro aleggiante da eliminare, quello della doppia sconfitta contro i New York Giants, una coppia di passi falsi che rappresentavano delle cicatrici ancora aperte per Kraft, Brady e Belichick. Nessuno avrebbe osato, crediamo, mettere in discussione ciò che i Patriots hanno rappresentato negli ultimi quattordici anni, né considerando la doppia beffa propinata loro da Eli Manning e compagni, né qualora Seattle avesse varcato l’area di meta ieri notte, proprio come ipotizzato in apertura di questo articolo.

Sarebbero comunque rimasti quei tre titoli in bacheca, ma nessuno avrebbe tolto i Patriots dal posto nella storia del gioco che spetta loro di diritto. Tuttavia, quella sensazione di incompiutezza ed amara delusione sarebbe comunque rimasta ben incisa nella pelle di chi quelle sconfitte le ha vissute con sofferenza, mandando a quel paese una sorte che si era permessa di rovinare una stagione quasi perfetta, quella del possibile 19-0, ed un’altra che pur priva dell’imbattibilità aveva in ogni caso mostrato al mondo l’ennesima edizione dominante targata New England.

david-tyree-catchA Tom Brady tre titoli di campione NFL non bastavano a placare la sete di vendetta per quelle sconfitte, pervenute anche a causa di episodi irripetibili, come le prese, rimaste scolpite nella storia, di David Tyree nel primo caso e di Mario Manningham nel secondo, pervenute in circostanze molto simili, quasi a significare che da un certo punto in poi il destino dei Patriots sembrava essere diventato incontrovertibile, e punitivo nei confronti di una franchigia che aveva vissuto momenti difficili a causa del clamore dello Spygate, e che veniva detestata da molti per la sua natura spietata, che non smetteva di segnare nemmeno sopra di quaranta o più punti.

Tom Brady e Bill Belichick di questo titolo avevano dannatamente bisogno. Più di quanto si pensasse.

In quegli ultimi istanti di gara, tesa ed emozionante come tutte quelle finalissime che negli anni hanno coinvolto la franchigia di Foxboro, sembrava stesse pervenendo la terza beffa di questa lunga storia, l’ennesimo scherzo di pessimo gusto, duro come un macigno da deglutire, ma senza possedere scelte alternative. Nel momento in cui quel pallone ballerino ha danzato per interminabili secondi in aria prima di terminare tra le braccia di Jermaine Kearse, cui va l’indubbio merito di essere rimasto concentrato a mille su ciò che stava facendo, ogni membro dei Patriots che aveva precedentemente già sopportato quella scena si sarà sicuramente sentito preso in giro dal destino.

E proprio in quel momento, New England ha rischiato da vicino di ritrovarsi appiccicata addosso una fama scomodissima ed ingiusta per chi negli anni ha messo tanta volontà e lavoro per creare una franchigia in grado di restare perennemente al top, ovvero quella di ex-dinastia cui d’un tratto non riusciva più l’ultimo passo, quello più importante.

malcolm-butlerSull’epilogo le discussioni sono aperte, e per sempre lo resteranno, perché se oggi siamo qui a proclamare campioni i Patriots per la quarta volta in quattordici anni lo dobbiamo tanto al lavoro di cui sopra quanto alla fatale chiamata di Darrell Bevell, l’offensive coordinator dei Seahawks, nei trenta secondi finali del Super Bowl.

Ma anche questo episodio, nella sua particolarità, ci dà il modo di sottolineare la validità e la competenza del sistema-Patriots, andato ad asseverare una volta in più il riconoscimento di tutto quel talento che viene ignorato dagli altri. E’ una tesi che vale per l’autore dell’intervento decisivo per il titolo, quel Malcolm Butler firmato come undrafted free agent in uscita da West Alabama e catapultato improvvisamente all’interno della partita più importante della sua vita, ma sostenibile pure per giocatori come Julian Edelman, un quarterback scelto alla posizione numero 232 (settimo giro) del Draft 2009, il quale non era all’epoca nemmeno stato invitato alla Scouting Combine (tanto per capire il reale valore di certe manifestazioni…), ma che in questo sistema offensivo si è preso la briga di diventare un ricevitore da oltre 100 prese e 1.000 yard in due stagioni consecutive, vestendo per un attimo i vecchi panni del regista in un trick play fondamentale per la rimonta di New England nel Championship contro i Ravens.

L’aria di rivincita l’hanno tuttavia respirata a pieni polmoni anche i campioni più affermati, quelli di classe superiore. Il quarto titolo di New England è il primo della carriera di Darrelle Revis, che per anni è stato indiscutibilmente il miglior cornerback della NFL, caduto nella miseria più totale dopo la rottura del crociato anteriore durante l’ultimo anno ai Jets, la squadra con cui aveva fronteggiato Brady per anni, e l’esilio a Tampa Bay, schiavo di uno schema che non era il suo.

Ed è il primo della strana ma sfolgorante carriera di Rob Gronkowski (anche se l’intervistatore, sul palco delle premiazioni, gli ha chiesto come fosse provare di nuovo questa sensazione, ma vabbè…), un giocatore che fa notizia per la tendenza al party, ma che quando avrà terminato la carriera, sempre che la salute lo abbia in grazia, potrebbe aver stracciato tanti record storici riservati ai tight end dopo averne passate di tutti i colori con avambraccio e ginocchio, ma soprattutto con quella schiena che mise in allarme tantissime franchigie NFL, tanto da farlo cadere al secondo giro del Draft 2010, dritto nelle braccia di Belichick.

20150201__brady-trophy~p1Ma l’ultimo pensiero, il più dolce, non può che andare a Brady, il ragazzino di San Mateo, California, cresciuto tifando per i 49ers idolatrando Joe Montana e Steve Young. Ed ora Golden Joe lui lo può guardare dritto negli occhi, avendone raggiunto il record di vittorie al Super Bowl nonché quello per numero di Mvp della finalissima, un pensiero immenso, il sogno di una fanciullezza che gli passava visibilmente negli occhi ad ogni intervista post-gara, assieme a tutta l’emozione che si riusciva a leggergli, che nemmeno i filtri di uno schermo del pc sono riusciti a nascondere.

Sono loro, i fastidiosi New England Patriots, di nuovo campioni NFL.

Hanno dimostrato di essere un grande gruppo di giocatori, di saper reagire alle avversità, di poter ripartire con convinzione anche quando tutti, dopo il famosissimo Monday Night di Kansas City, dicevano che erano bolliti. Sono stati la squadra più dominante del 2014, capaci di vincere cambiando identità ad ogni partita, mettendo in scena un assalto aereo dietro l’altro, oppure correndo in maniera pesante e gestendo il cronometro, contrariamente a tutte quelle squadre che, una volta individuato il loro limite, non riescono più a vincere.

Il legame creato tra Kraft, Brady, Belichick e questa uniforme non era in discussione prima, non sarebbe stato in discussione in caso di sconfitta, ed a maggior ragione adesso la sua corretta collocazione nei libri di storia non può essere messa in dubbio.

Non saranno simpatici a tutti, ma si sa, le dinastie stanno scomode un po’ a tutti perché la tendenza è sempre quella di tifare per il più debole. Ieri notte New England era la squadra che aveva forse di più da dimostrare tra le due finaliste, ed ora giustizia è fatta anche per loro.

Per quanto hanno dimostrato in tutti questi anni di livello eccelso, non ci sono telecamerine o palloni sgonfi che tengano. I Patriots sono semplicemente una delle franchigie più dominanti di tutti i tempi.

4 thoughts on “Brady, Belichick, la rivincita e l’appuntamento con la storia

  1. Dopo molte lacrime amare per le 2 sconfitte contro i Giants avvenute anni fá posso piangere di gioia per questa vittoria… Grazie di tutto miei Patriots

  2. onore ai vincitori ci mancherebbe, e onore a brady che è stato un rullo compressore soprattutto nell’ultimo quarto, bisogna dire che la gara, emotivamente parlando è stata fatta da seattle, mettendo in campo il solito campionario di variazioni visto i ricevitori che ha, con wilson a fare quello che poteva per andare in meta, alla fine 24 punti li hanno fatti, quello che è mancato è stato l’apporto difensivo soprattutto ripeto nell’ultimo quarto, pensavano di aver già vinto

  3. Io sono uno di quelli a cui i pats non stanno per nulla simpatici, ma non posso che ammirare la loro continuità e la loro organizzazione che ha permesso non solo di vincere, ma di rimanere “in cima” per un’intera decade. Pazzesco.

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