Ad oggi la NFC South è una delle division più equilibrate e combattute. La classifica è cortissima e tutte e quattro le squadre di appartenenza possono puntare ad un posto nei playoff.
Detta così sembrerebbe che la division sia una specie di girone infernale dove va in scena una guerra tra corazzate, ma in realtà il bottino raccolto finora da Tamba Bay, New Orlenas, Carolina e Atlanta racconta più che altro di una guerra tra poveri.
In totale la division vede un record di 2-12-1 delle partite giocate in trasferta e la capolista, i Panthers, guidano con il record tutt’altro che stellare di 3-3-1, dove quell’uno è un regalo di Cincinnati che ha buttato al vento la vittoria nella week 6.
I Ravens, che di quattro squadre ne hanno già incontrate tre, hanno segnato in totale 115 punti subendone solo 34. Il momento generale di difficoltà stona soprattutto pensando ai proclami e alle aspettative della preseason, ma se quello raccolto finora è così poca cosa, un motivo da qualche parte deve esserci.
Da Tampa Bay, mi spiace dirlo, non ci si aspettava molto di più. La franchigia è ancora in una fase di transizione che si trascina ormai da qualche anno e pur avendo qualche stella, il LB David su tutti, i Buccaneers mancano ancora di identità.
Non hanno un quarterback e l’arrivo di McCown in freeagency non ha migliorato la situazione anche se a Chicago, in sostituzione di Jay Cutler, aveva fatto molto bene tanto da guadagnarsi appunto un contratto da titolare.
L’infortunio alla mano si è messo di traverso e Glennon, come l’anno scorso, mostra cose buone anche se accompagnate da poca solidità. In ogni caso il posto da titolare è diventato di nuovo in ballottaggio e una situazione con così poca certezza di certo non giova all’umore generale e al tentativo di ricostruzione.
Ricostruzione peraltro avviata a singhiozzi tanto che oggi, a poco dalla scadenza per effettuare le trade si parla di mettere sul piatto uno dei pezzi forti: Vincent Jackson.
I Buccaneers hanno preso al primo giro Mike Evans che sembra promettere molto bene e Jackson fa gola a molte squadre in ottica playoff, cosa che Tampa Bay non è.
A pochi giorni dalla chiusura del mercato è normale che rumors e speculazioni si inseguano, ma è anche facile capire da dove arrivano: Jackson ha 31 anni e si avvia alla seconda fase di carriera, quella declinante, e non gli dispiacerebbe affatto calcare il campo di una franchigia che giochi partite di altro livello, con ben altro in gioco che non sia “limitare i danni”.
In cambio di una buona posizione al prossimo Draft, la trade di Jackson può essere dolorosa sul momento, ma potrebbe pagare in futuro. Tampa Bay deve muoversi bene nei prossimi draft e freeagency, deve trovare un qb e puntare su quello che ha già, come Evans e la squadra di linebackers e potrà così costruire una buona squadra.
Per ora però possiamo concordare con Antonio Brown, WR degli Steelers, che alla fine della partita persa in casa dice: “abbiamo perso contro una delle squadre più scarse della lega”
I Panthers, campioni in carica, si aspettavano una stagione difficile e ripetere il successo del 2013 era fin da subito impresa ardua. Certo è che non si aspettavano di faticare così tanto.
La freeagency estiva ha segnato alcune perdite dure da digerire. E’ vero che ci sono stati i rimpiazzi, ma perdere tutto in un colpo il parco di ricevitori è stato un brutto colpo per Cam Newton.Dal suo arco può ancora scagliare ottime frecce verso il rookie Kelvin Benjamin e l’affidabilissimo TE Olsen, ma purtroppo per lui le alternative finiscono lì.
Il gioco di corsa procede a singhiozzi anche perchè i running backs non riescono a rimanere in salute e spesso devono sedersi in panchina, e lo stesso Newton fisicamente non è al 100% tanto che ogni colpo duro che prende sulla caviglia fa tremare tutti i tifosi.
Carolina però ha dalla sua che i miglioramenti possono esserci e anche nell’immediato, se Newton riesce a rimanere in campo può sia correre che lanciare bene e questo lo rende un’arma difficile da difendere per ogni avversario soprattutto se i giochi d’attacco riescono a disegnare degli schemi in grado di liberare Benjamin e Olsen.
Rimane una sensazione di precarietà, ma l’attacco di Carolina può costruirsi sui punti di forza già presenti in roster e può da subito dare il suo contributo. D’altra parte però se Kuechly & co l’anno scorso facevano paura a tanti, quest’anno invece si sono persi un po’ in giro.
Arrivati alla week 7 un gruppo dalle basi fortissime non sta giocando un football intelligente, non porta a termine delle giocate, e non compete con la giusta energia. Sembra un problema di testa, più che di schemi, ma se McDermott, il defensive coordinator, riesce a trovare la quadra del cerchio allora le speranze di playoff sono più che giustificate, tenendo conto anche del piccolo vantaggio di Carolina che per ora si trova nella piazza numero 1 in classifica.
Atlanta ha potenzialmente un attacco straordinario: in Ryan ha un ottimo quarterback, i ricevitori sono di altissimo livello e gli schemi di attacco sono vari e versatili tanto da poter mandare in difficoltà ogni difesa avversaria.
Il vero problema consiste nel fatto che i Falcons non riescono a dare a Ryan il tempo per poter lanciare. La linea offensiva non riesce a fermare le pass rush avversarie e non lascia scampo a Ryan.
Contro delle difese poco aggressive, come con i Saints nella week 1, Ryan e l’attacco hanno collezionato yard su yard e grandi numeri, ma contro pass rush aggressive come Baltimora o Chicago non c’è stato nulla da fare. Anche il numero di penalità subite fa capire che le difficoltà sono racchiuse in quella linea a volte invisibile, ma il cui contributo è fondamentale.
Gli infortuni purtroppo non sono recuperabili alla svelta e Ryan pur avendo Jones, White e Hester in forma e sani, non riesce ad innescarli e la situazione per il breve periodo non è delle migliori.
E’ difficile riuscire a vedere un miglioramento rapido in modo da lasciare Atlanta a combattere per la vittoria in division e i fantasmi di una stagione come quella dello scorso stanno diventando sempre più realtà. Intervenire quest’anno non sembra quindi possibile, ma con una buona freeagency e qualche innesto di rookie il 2015 per Atlanta appare pieno di speranza.
Ultimi ma non meno importanti i Saints sono forse la più grande sorpresa in negativo dellla lega intera. In preseason si parlava di una squadra da Super Bowl che sulla carta aveva pochi avversari con un attacco che si mantiene su livelli di altissima qualità e una difesa ancora migliorata rispetto a un 2013 dove si era classificata quarta.
Il 2-4 della week 7 racconta invece di una squadra che ha perso l’istinto killer che la contraddistingueva. Da una parte infatti la difesa che si presentava come una delle migliori con un duo di safety degna di Seattle ha da subito mostrato segni di cedimento.
Byrd non ha mai giocato come faceva a Buffalo con giocate da game breaking e i “punti deboli” nella posizione di CB non sono stati coperti al draft, trasformandosi così in vere e proprie lacune. Lo dimostrano gli errori macroscopici a Buffalo e Detroit nei drive decisivi, quando una cattiva comunicazione ha lasciato libertà totale ai ricevitori avversari e alcune penalità hanno pesato moltissimo.
Non si può commettere una pass interference a due minuti dalla fine su un 4th & goal lanciato fuori misura dal qb avversario perchè si fa la differenza tra vittoria e sconfitta. L’aspetto positivo della situazione è racchiuso però dal fatto che se non ci fossero stati due/tre errori di numero il record anziché 2-4 sarebbe stato 4-2.
La situazione sembra migliorabile nel breve periodo anche perchè, errore nel finale a parte, la difesa dei Saints ha già mostrato molti miglioramenti, paradossalmente anche senza Byrd.
Domenica scorsa, fino a 4 minuti dalla fine New Orleans aveva messo in scena la miglior prestazione stagionale con due intercetti in difesa, una secondaria affollata ma rapida a chiudere sulle corse e una linea che finalmente a trovato la strada verso il qb avversario.
Dopodichè c’è stato il black out, come c’è stato un black out anche in attacco quando per la terza volta i i Saints bruciano nei pochi istanti finali il vantaggio accumulato in partita.
L’attacco si è dimostrato versatile e in grado di coprire al meglio l’assenza di Jimmy Graham perchè le armi a disposizione di Brees sono davvero tante, così come il coach Sean Payton ha disegnato degli schemi offensivi rapidi e corti in grado di tagliare fuori la fortissima passa rush dei Lions. Il tutto vanificato da pochi colpi di buio totale.
Contro Detroit si è vista davvero una bella prestazione, ma se inizialmente era la difesa che bruciava quanto costruito dall’attacco, ora anche l’attacco mostra errori banali e per questo gravi che fanno perdere le partite.
Il differenziale totale di punti recita un -10 che mette i Saints nella migliore situazione per recuperare dalle difficoltà nell’immediato. Basta migliorare la concentrazione, eliminare quei buchi neri così dannosi, e potremo rivedere quel football che ha portato molte soddisfazioni nella Big Easy.
La mediocrità che regna nella division sicuramente viene incontro ai nero-oro e la sconfitta di domenica a Detroit, pur essendo una sconfitta, è stata la migliore prestazione delle squadre che militano nela NFC South e i Saints hanno diversi punti di miglioramento su cui concentrarsi da subito, ora che non è ancora troppo tardi.
La lotta per la prima posizione e per i playoff appare una lotta a due tra Saints e Panthers dove i primi possono migliorare di più e in fretta, ma il calendario non gioca a loro favore, mentre i secondi possono godere di un piccolo vantaggio in classifica, di margini di miglioramento e possono sperare in altri passi falsi di Brees e compagni. Pur essendo una lotta tra poveri, la NFC South può nascondere un interessantissimo spettacolo.
Si avvicina agli sport americani grazie a un amico che nel periodo di Jordan e dei Bulls tifa invece per gli Charlotte Hornets. Gli Hornets si trasferiscono in Louisiana ed è amore a prima vista con la città di New Orleans e tutto quello che la circonda, Saints compresi, per i quali matura una venerazione a partire dal 2007 grazie soprattutto ai nomi di Brees e Bush. Da allora appartiene con orgoglio alla “Who Dat Nation”.