pacer5465Augustin, Young, Hansbrough, Mahinmi: chiunque si trovasse a leggere questa lista di giocatori NBA probabilmente trasalirebbe sentendosi dire che la panchina di una delle migliori squadre del campionato passato nasceva e moriva con i suddetti quattro dell’Ave Maria.

Esatto, proprio quegli Indiana Pacers coriacei e mai domi, capaci di portare i futuri bi-campioni in carica dei Miami Heat a gara 7 di una memorabile finale della Eastern Conference, hanno affidato la loro corsa conclusa a un passo dall’accesso alle Finals anche alle fortune di questi giocatori.

Fortune peraltro relative, dal momento che l’apporto globale del quartetto è stato nei limiti delle rispettive possibilità: onesti mestieranti della lega, capaci di incidere soprattutto sul lato difensivo del campo lasciando però scarse se non intangibili tracce su quello offensivo; il tutto per uno scenario comunque di successo, dato il piazzamento finale da vice-campioni a Est.

Ma le abili mosse piazzate in estate dalla dirigenza gialloblù aprono uno scenario totalmente nuovo, che rende i Pacers una delle più accreditate pretendenti alla corona di King James e dei suoi Heat.

Per mettere a segno il primo acquisto è stato sufficiente guardare in casa propria: Danny Granger, volto della franchigia fino all’inizio della scorsa stagione, è tornato a disposizione dopo aver passato tutta l’annata ai box a causa di continui fastidi ad un ginocchio, inizialmente curati con una terapia contenitiva ma che a lungo andare hanno richiesto di essere risolti chirurgicamente.

Parliamo di un’aggiunta non da poco: Granger, un’apparizione all’All-Star Game e top scorer della squadra nelle cinque stagioni precedenti (con media punti oscillante tra i 19 e i 26 a sera), è uno di quei giocatori in grado di spostare gli equilibri ma soprattutto un realizzatore puro al quale affidare il pallone nei momenti decisivi di una partita.

Il suo rientro apre un ampio ventaglio di soluzioni per coach Vogel, che potrà schierarlo di nuovo nel ruolo prediletto di ala piccola titolare oppure come arma letale dalla panchina, mantenendo invariato il quintetto che tanto bene ha fatto nei playoff (con Stephenson da due e George da tre).

La situazione del numero 33 resta comunque fluida, dal punto di vista contrattuale: l’accordo coi Pacers scade la prossima estate, e la dirigenza potrebbe anche decidere di esplorare il mercato per cercare merce di scambio adeguata ai suoi 14 milioni di salario prossimi alla scadenza.

Detto dell’importantissimo rientro in pista di Granger, il management dei Pacers non si è affatto accontentato e non è rimasto con le mani in mano: il trio Bird-Walsh-Pritchard, infatti, si è mosso con acume e grande tempismo sul mercato, con rinnovi e aggiunte ideali per dare continuità ad un progetto che ha tutte le carte in regola per essere vincente.

Dopo aver messo al sicuro il prolungamento di David West, che con un triennale da 36 milioni si lega alla franchigia di fatto fino a fine carriera come punto di riferimento dentro e fuori dal campo, e aver pescato ottimamente in sede di draft con la chiamata di Solomon Hill al numero 23, la dirigenza di Indiana ha piazzato un tris di acquisti niente male: gli arrivi di Luis Scola, CJ Watson e Chris Copeland vanno a rinforzare il tallone d’Achille della squadra, rendendo la panchina dei gialloblù di tutt’altro spessore rispetto a quella pressoché impalpabile dello scorso anno.

L’acquisto dell’ala argentina è una scelta che si inserisce perfettamente nel solco di una filosofia ben precisa abbracciata dalla franchigia: i Pacers sono infatti una squadra se vogliamo “tradizionale”, costruita su una batteria di lunghi in grado di controllare i tabelloni e fare la voce grossa nel pitturato.

Scola, professore di un gioco ormai in via di estinzione fatto di tecnica e movimenti da ballerino in post, andrà a comporre un tandem ben assortito col francese Mahinmi, per un apporto di qualità e quantità equamente distribuito su entrambi i lati del campo.

Il tutto per dar vita a una rotazione di lunghi con pochi eguali nella lega, una scelta ben precisa per un mantra che risuona ormai da un paio d’anni tanto nello stato degli “hoosiers” quanto in tutta la lega: “Beat the Heat”.

La strada tracciata dai Pacers, e seguita dalle principali contender della Eastern Conference (Chicago e Brooklyn), è quella del controllo dell’area e dei tabelloni, punto debole per definizione degli uomini di South Beach. Un granello di sabbia in un ingranaggio pressoché perfetto, che ha convinto Pat Riley e i suoi a giocarsi la carta Greg Oden scommettendo sul ritorno alla carriera agonistica della prima scelta assoluta del 2007.

Oltre a Scola (arrivato da Phoenix in cambio di Gerald Green, Miles Plumlee e una scelta al primo giro del prossimo draft) sono approdati a Indianapolis anche due free agent “newyorchesi”, Watson di sponda Nets e Copeland dai Knicks.

Il play ex Bulls arriva più motivato che mai, pronto a lavare l’onta di due postseason consecutive nelle quali ha collezionato poster personali coincisi con momenti non propriamente esaltanti delle sue squadre (lo scellerato passaggio a Asik con liberi sbagliati dal turco e annessa eliminazione dei Bulls nel 2012, una schiacciata in solitudine sparata sul ferro che diede il via allo show di Nate Robinson e alla clamorosa rimonta subita dai Nets nel 2013); l’ala invece arriva da una stagione da film, che lo ha visto esordire in NBA a 27 anni nel vorticoso microcosmo dei Knicks e della Grande Mela in modo più che sorprendente, permettendogli di ottenere un contratto che verosimilmente gli cambierà vita e carriera.

Acquisti di qualità e quantità dunque, che danno in mano a coach Frank Vogel una squadra talentuosa e finalmente profonda. Il tutto stando alla larga da spese pazze e “contratti albatros”, centrando l’obiettivo di non sforare in zona luxury-tax: con tredici giocatori a roster, infatti, il monte salari dei Pacers si attesta intorno a quota 68 milioni di dollari (al netto del contratto non garantito di Donald Sloan), vale a dire poco più di tre milioni sotto la fatidica soglia della tassazione extra.

Con due/tre posti ancora disponibili per completare la rosa, i Pacers hanno a disposizione, oltre al suddetto margine, una fetta della cosiddetta “mid-level exception” (2.15 milioni) e una trade exception da 1,2 milioni da utilizzare in caso di scambio di giocatori.

Un jolly non da poco quello della flessibilità salariale che, col nuovo contratto collettivo, è diventata la pietra filosofale di tutti i GM della lega. A Indianapolis, evidentemente, si intendono anche di matematica oltre che di basket e motori; una risorsa molto importante in ottica sia presente che futura.

Un futuro che mostra ai Pacers un sorriso a trentadue denti: il mix tra gioventù ed esperienza sembra essere ideale, la coppia formata da Paul George e Roy Hibbert è sbocciata in tutto il suo splendore negli scorsi playoff, mentre Stephenson sembra avere a disposizione un continente di talento ancora in gran parte inesplorato.

Con un Granger in più nel motore, una panchina finalmente attrezzata per lasciare il segno agli ordini di un coach giovane ma preparatissimo come Vogel, a Indianapolis c’è tutto per poter pensare in grande.

Gentlemen, start your engines: la Fieldhouse promette di essere più calda e rumorosa dell’ovale più famoso al mondo.

2 thoughts on “Indiana Pacers: pronti a sognare?

  1. Hum… L’anno scorso sembrava sbagliassero apposta i tiri per fare canestro su rimbalzo offensivo. Veramente orribili a vedersi. Intensi ma orribili. A parte Scola non mi pare abbiano aggiunto molto QI e trattamento di palla alla squadra (e scola è un innesto nella posizione più coperta, secondo me).
    Che ne dite? Rimangono rognosi, atletici ma prevedibili? Tipica squadra da 4-3, fuori, come gli Hawks che facevano sempre tanto dannare i Celtics del 2008-2009?

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