Gli americani hanno sempre dedicato molto spazio alle statistiche sportive. Forse è la natura del baseball, “passatempo nazionale”, sport statistico per eccellenza, fatto sta che anche football e basket hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le cifre.

L’innovazione tecnologica contribuisce oggi in molti settori dello sport, dalla programmazione degli allenamenti alla prevenzione degli infortuni, o in un’analisi molto più dettagliata –rispetto al buon vecchio “box score”– di ciò che i giocatori effettivamente fanno sul campo.

Queste tecnologie consentono di sviluppare statistiche nuove e “avanzate”, utili a misurare meglio il valore di un giocatore e il suo concreto apporto alla squadra.

Questo movimento di analisi statistica è nato quando Billy Beane, il GM degli Oakland A’s dell’MLB (al riguardo, vi consigliamo il libro di Michael Lewis, Moneyball, e l’omonimo film, interpretato da Brad Pitt) decise di ricorrere alla Sabermetrica per tentare un approccio che capace di misurare il valore dei giocatori, ottimizzando così il proprio budget.

Aiutato da Paul DePodesta, Beane ha rivoluzionato l’approccio statistico al Baseball, spingendo molte franchigie ad adottare il medesimo modello e abbandonando le logiche tradizionali per costruire una squadra.

Il termine sabermetrica è stato coniato dallo statistico Bill James, che lui stesso descrive questo approccio empirico come “la ricerca di conoscenza oggettiva nel Baseball”. Oggi i “sabermetrici” dominano le Major, e sono arrivati anche in NBA, dove John Hollinger, per anni analista ESPN ed esponente di questa corrente, è stato assunto dai Memphis Grizzlies della gestione Pera e Levien.

Morey formula_LDaryl Morey di Houston è noto per aver implementato un modello gestionale subito ribattezzato “Moreyball” (adoperato anche dai 76ers di Sam Hinkie, discepolo di Morey), ma, a prescindere dal front-office, tutti gli staff tecnici fanno oggi uso di statistiche avanzate per scrutinare gli avversari o i propri giocatori e per scegliere chi draftare o scambiare.

Sono così entrate nel gergo comune delle telecronache parole come efficiency, PER, rimbalzi disponibili, usage e via dicendo, e si pone un’inedita attenzione alle statistiche “lontano dalla palla” che, nei box-score tradizionali, venivano pressoché ignorate.

In queste ultime stagioni, la sabermetrica applicata all’NBA ha sancito alcuni paradigmi: i “long-two” sono un male, mentre il tiro da tre va usato di più e meglio, all’insegna dello “spread the floor”. Non importa quanti rimbalzi prendi, o quanti punti segni ma come li segni (con pochi tiri e senza perdere troppi palloni) e come li catturi (in alta percentuale rispetto a quelli effettivamente disponibili).
La sabermetrica enfatizza il “pace” offensivo (piuttosto che i punti a partita) e le statistiche difensive, come le “deflections” (palloni sporcati, diremmo noi, ma non rubati agli avversari).

Tuttavia, le tecnologie che elaborano questi dati sono assai perfettibili: nel numero 89 di Rivista Ufficiale NBA, Mauro Bevacqua e poi Flavio Tranquillo scrivono che è considerato disponibile quel rimbalzo in cui il pallone è ad un metro e mezzo di distanza, mentre un tiro è considerato “contested” se il difensore è ad un metro.

Chiaramente, questi sono parametri che non consentono un’analisi precisa e soddisfacente di cosa avviene in campo; un difensore non può preparare una partita guardando le percentuali indicate da queste statistiche, perché mischiano mele e pere, tiri con la mano in faccia ed altri in cui il difensore rimane a braccia abbassate, situazione di contatto fisico ad altre in cui il difensore rimane separato; insomma, sono numeri, all’atto pratico, così poco specifici da costringere a guardare i buoni vecchi videotape.

Inoltre, l’accresciuto numero di dati disponibili impone una cernita tra l’essenziale e l’inutile; quando si è sommersi di dati, la mente umana, che è fatta per prendere in considerazione un numero modesto di scelte, va in confusione e prova quella vertigine che coach Kierkegaard ascriveva all’angoscia di sapere che tutto (e quindi nulla) è possibile.

Troppe informazioni generano paralisi decisionale, e proprio per questo sono stati sviluppati programmi come Eagle, che semplifica i dati estrapolando mappe di tiro, ma il problema permane: quanto occorre dire ai propri giocatori per aiutarli a giocare meglio, senza disorientarli con troppe informazioni?

Per giunta, le franchigie difendono gelosamente i propri metodi e gli usi che ne fanno, desiderose come sono di mantenere un vantaggio competitivo sugli avversari; senza un confronto però, lo sviluppo di queste tecnologie procederà in modo lento e approssimativo.

Questi strumenti statistici servono come argomenti a fortiori, ma non introducono nulla di nuovo: sapevamo che un jump-shooting-team è una realtà perdente prima che arrivassero le telecamere di SportVU a dircelo, e ogni vero appassionato potrà recitarvi che “l’attacco vende i biglietti, e la difesa vince i titoli”, con tutto quel che ne consegue.

Addirittura, secondo una ricerca condotta da David Lewin e Dan Rosenbaum nel lontano 2007 la statistica “semplice” del playing time è capace di predire meglio le future vittorie rispetto ad ogni statistica sabermetrica.

La conclusione alla quale giungono Lewin e Rosenbaum è che l’informazione a disposizione dei software, per quanto capillare, non raggiunge mai, dal punto di vista qualitativo, quella posseduta da un GM NBA (o un qualunque esperto), per l’intrinseca difficoltà di allocare il merito del successo (o dell’insuccesso) tra i giocatori in uno sport che, a differenza del Baseball, non è segmentato in compartimenti stagni, ma fluido.

Abbiamo così interpellato Tommy Balcetis, Manager of Basketball Analytics per i Denver Nuggets, per sapere che cosa pensasse di questo studio, e ci ha risposto che è ancora attuale: secondo l’addetto dei Nuggets, le statistiche sono importanti, ma molto peso, nel processo decisionale, continua ad avercelo l’osservazione del gioco, di persona e in video.

Mentre molte squadre NBA sono consapevoli del valore effettivo delle statistiche avanzate, parte dei media è in preda ad una vera e propria mania per la sabermetrica, e propina PIE, Player Efficiency Rating e true shooting come verità rivelate, quando si tratta viceversa di dati opinabili, che attribuiscono un valore arbitrario ad un numero di categorie statistiche.

Lo stesso può essere detto per la valutazione dei prospetti: Balcetis ha dichiarato in un’intervista di fare un uso marginale di statistiche in questa sede, preferendo fare ricorso ai videotape o a provini privati.

Nessun software è in grado di stabilire con certezza l’upside di un rookie o la disponibilità di un giocatore a sacrificarsi per la squadra; alla fine, occorre sempre e comunque l’esperienza di chi conosce il basket e sa intravedere il giocatore con la giusta attitudine, senza la quale il talento non si traduce in vittorie.

Spesso, analisi empirica e statistica combaciano: dice Brian Shaw: “Potete parlarne con qualsiasi purista del gioco; devi tenere gli avversari fuori dal verniciato, non lasciarli tirare triple non contestate dagli angoli, e giocare in difesa senza fare fallo. Sono le stesse cose che ti dirà un analista statistico, usando un plico di carta”.

A Denver ritengono di aver trovato la mescola ideale: Balcetis fornisce dati al coaching staff, che decide se adoperare o scartare le cifre, in base a ciò che vede ogni giorno in palestra, in un meccanismo virtuoso che consente un costante confronto tra due diversi approcci alla pallacanestro.

Gli impieghi delle statistiche avanzate e delle nuove tecnologie video sono vari, e stanno producendo molti studi di valore:

L’ingegnere biomeccanico Muthu Alagappan, dell’università di Stanford, ha sviluppato un modello che riconosce 13 ruoli di gioco, anziché i 5 tradizionali (il che gli è valso un premio della MIT Sloan Sports Analytic Conference); tra questi, ci sono definizioni come “scoring rebounder” o “jump-shooting ball-handlers”, ma lo stesso Alagappan ha sottolineato che la medesima tendenza era stata sviluppata autonomamente anche dagli scout, quando inventarono le posizioni di “point forward” o di “combo-guard”.

Due professori di Arizona State, Jennifer Fewel e Dieter Armbruster, hanno condotto uno studio interessante relativo ai Playoffs 2010; hanno creato una mappa dei passaggi, dimostrando, cifre alla mano, che il Triangolo dei Lakers (che vinsero il titolo) è il sistema migliore per distribuire il pallone, spiegando, da un punto di vista matematico, quel che Tex Winter ha sempre saputo: se ci sono cinque passatori in campo, la difesa deve prendere in considerazione un numero maggiore di potenziali minacce. Maggiore è l’entropia dell’attacco (ossia l’apparente casualità) e maggiori saranno le chance di vittoria.

Questi e molti altri studi non ci dicono niente di totalmente nuovo sui meccanismi del basket, limitandosi a confermare cose che per gli esperti sono risapute; il basket è molto simile ad un flusso continuo, nel quale le interazioni tra i 10 giocatori in campo rendono futili i tentativi di ridurre tutto ad una serie di formule, se non quelle, banalissime, per cui bisogna tirare da vicino o da tre, non si deve perdere palla, bisogna proteggere il ferro e controllare i rimbalzi; sono informazioni lapalissiane, per le quali non serve scomodare algoritmi e tecnologie.

In ultima analisi, è sempre Alagappan a offrici una preziosa chiave di lettura: “Molto spesso ottengo dei risultati che, secondo me, non hanno senso da un punto di vista cestistico. Sono logici da un punto di vista matematico, ma quel che mi chiedo è dove sto sbagliando, in termini di scelta dei dati o di metriche, che porta il software a non capire quel che gli viene chiesto. Il gradino è tutto lì, il software lavorerà sempre in modo corretto, ma tutto sta nell’affidargli il compito giusto, e per farlo ricorro all’intuito”.

Insomma, i dati spuri hanno bisogno di essere calibrati da qualcuno che conosca il gioco, e che sappia tener conto degli aspetti psicologici di questo sport; dunque, a ognuno il suo: la sabermetrica ha perfezionato la statistica, ma resta accessoria ad una “basketball mind” che sappia cosa farsene, o, per dirlo con le parole di Balcetis: “Gli analytics sono solo una parte del puzzle. È solo un ramo di un meccanismo informativo più grande”.

3 thoughts on “Focus: l’NBA e le statistiche avanzate

  1. Articolo molto interessante! sono anche io un “malato” di statistiche nel mio piccolo, l’ultima volta che ho partecipato ad un fantabasket avevo statistiche e “previsioni” assurde per i vari giocatori :D ovviamente un fantabasket e’ molto diverso dalla realta’ e un approccio del genere funzionava molto bene!

  2. Credo sia innegabile che il rapporto biunivoco fra basket numerico e basket osservato è la buona prassi per ogni forma di scouting e di decisione assennata; per questo è cruciale che ad ogni Sloan Conference ci sia almeno uno dei due fratelli Van Gundy a tenere gli “analitici” con i piedi per terra, o meglio, sul parquet…
    Il panorama delle statistiche sta giungendo rapidamente alla sua saturazione, con il rischio di implementare approcci da videogame (tipo EPV) o alienazioni nella valutazione del singolo (tipo Win-Share). Spesso, come segnali bene nell’articolo, i numeri confermano e quantificano ciò che un buon osservatore ha già notato e, in fondo, il basket non ha bisogno di aspirare a diventare una pseudo-scienza esatta (l’atomo è stato intuito duemilacinquecento anni fa, ma è stato visto e studiato scientificamente neanche due secoli fa… il pick n’ roll Stockton/Malone era palesemente un brutto cliente per le difese, anche se non c’erano Synergy e SportVu a confermarlo…).

    A mio avviso, la fruibilità delle stats sta tutta nell’arduo bilanciamento fra risultati troppo generici, ma con solida casistica (efficacia di un team nel pick n’ roll), e risultati molto specifici, ma con casistica troppo esigua per essere attendibile (efficacia nel pick n’ roll giocato in ala destra del giocatore X come palleggiatore, con giocatore Y come bloccante che poi riceve entro i 4 metri e conclude senza palleggiare, durante gli ultimi 5 minuti dell’ultimo quarto, sul punteggio di +/- 5, contro avversari con percentuale di vittorie sopra il 50%, durante una partita giocata in casa con in campo tutti i 10 i titolari…).

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