“I’m going to take my talents to South Beach and join the Miami Heat”.

Sono ormai passati quasi quattro anni dalla cosiddetta “Decision”, ossia l’annuncio di LeBron James al mondo intero riguardo al suo futuro professionistico più prossimo. Una tanto attesa, e sotto certi punti di vista molto attaccata, frase che ha invece fatto esplodere di gioia la tifoseria tutta della formazione della Florida.

Annuncio successivamente diventato una sorta di proclamo a raggiungere fin da subito il vertice della NBA quando, insieme a Wade e Bosh alla presentazione dei “Big Three”, James disse di voler arrivare a vincere “not three, not four, not five, not six, not seven” anelli. La stessa organizzazione targata Miami Heat ha voluto festeggiare quel momento, parafrasando la celebre frase composta di sole tre parole di Barack Obama: “Yes, we did”.

Nella stagione appena passata lo scenario ha dato prova di quanto di buono ha fatto la formazione di Riley negli ultimi anni: Miami continua ad essere la N.1 della Eastern Conference, eliminando in finale  gli Indiana Pacers.

Nella Finals tuttavia gli Heat incontrano di nuovo gli Spurs, ed i ruoli si invertono rispetto all’anno precedente: sono i texani a dominare su più fronti la formazione della Florida, non in grado di contrastare neanche lontanamente il gran lavoro di Gregg Popovich e dei suoi giocatori.

In una serie che ha visto l’allenatore nero-argento sopraffare da tutti i punti di vista Spoelstra, parecchi sono stati anche i giocatori tartassati dai media, e non solo, per le loro più che povere prestazioni.

James, infatti, è sembrato solo ed inerme contro la macchina Spurs, che ha visto frantumare e far collassare il back-court dei campioni in carica.

Già, proprio Chalmers e Wade sono stati i grandi assenti di questa corsa al three-peat, stoppata in maniera così lampante dalla formazione di Tim Duncan.

I due giocatori sono sempre sembrati assenti, quasi come se fossero con la testa da un’altra parte. Niente comunicazione, poca rotazione della palla per muovere la difesa e metterla in difficoltà, poco movimento volto a rendere l’attacco più incisivo, percentuali al tiro pessime, difesa più che rivedibile e nessun cenno di reazione per cercare di cambiare il “momentum” della gara in questione o dell’intera serie.

Un insieme di prestazioni da dimenticare per due atleti a dir poco fondamentali nei due titoli vinti da Miami, e che in maniera così povera e discutibile hanno giocato i loro gettoni contro i San Antonio Spurs.

 

Anche sul fronte panchina la situazione è degenerata per gli Heat, mettendo in risalto un’abissale differenza tra giocatori come Norris Cole e Patrick Mills. L’aborigeno, un tempo chiamato “Fatty Patty” per la sua forma non proprio da atleta, ha ricevuto un gran giovamento dalla cura militaresca di Popovich, ed è stato l’uomo chiave dell’allungo decisivo di gara 5, che lo ha visto assoluto protagonista nel terzo quarto di gioco a suon di triple.

Sembrava quasi di rivedere quel San Antonio-Cleveland, terminato poi 4-0 per gli speroni, in cui LeBron cercava in tutti i modi di riprendere la serie e rianimare la propria squadra. Il supporting cast, fondamentale in ogni corsa al titolo, non è stato all’altezza di contrastare la controparte trovatasi ad affrontare. I numeri di James parlano di quasi 29 punti di media con il 68% dal campo, il che rende l’idea del rendimento del numero 6, cosa totalmente differente con i sopra citati membri del back-court.

Anche le mosse di Spoelstra sono state alquanto rivedibili. L’allievo di Pat Riley (non un maestro qualunque) vincitore di due anelli consecutivi, non è stato neanche lontanamente in grado di muovere le proprie pedine per cercare di arrestare la fantasia e la verve che hanno portato sul parquet Ginobili e Diaw.

Continuare con quel quintetto, che così tanto ha sofferto i due giocatori di Popovich, e quelle rotazioni per ben quattro gare potrebbe non essere stato molto intelligente da parte sua.

Vedere Wade in parecchie situazioni accoppiato in post basso con Diaw, con il francese sempre e comunque in grado di scegliere la giusta opzione per permettere continuativamente la rotazione della palla degli Spurs, e porre in difficoltà la squadra avversaria, ha reso il contesto molto più difficile e pesante da gestire.

Probabilmente si sarebbe dovuti arrivare prima ad una più giusta ed accurata scelta delle rotazioni da effettuare, cercando magari degli aggiustamenti più efficienti.

Un paio di buone scelte sarebbero potute essere Battier su Diaw, un difensore sulle situazioni di post molto più efficace di Wade, in grado di soffrire molto meno i centrimetri e le mani del francese, oltre al jumper di Udonis Haslem per cercare di allontanare Tim Duncan dal pitturato.

Su questo aspetto Spoelstra non è mai riuscito nel suo intento, provando ripetutamente a far giocare Bosh sull’arco nel tentativo di sfruttare le sue triple ed obbligare così Duncan a lasciare quel ruolo di ancora difensiva tanto caro a Popovich.

Anche l’inserimento nel contesto di Andersen non è servito a molto. L’ex Nuggets, infatti, non è riuscito a marcare il territorio in ambito difensivo, cosa che l’anno scorso, invece, riuscì in maniera decisamente più netta. Le qualità che gli Spurs hanno mostrato nella metà campo offensiva hanno infatti, tra le altre cose, reso la vita difficile all’estroso nativo di Long Beach. Da questo punto di vista il filippino non è riuscito a contrastare il suo diretto avversario, e questi aspetti si sono sentiti per tutta la serie.

Anche dal punto di vista del mercato la formazione della Florida non è stata in grado di eseguire il giusto upgrade del proprio roster. Una squadra probabilmente con troppi esterni, in alcuni casi fin troppo scarsamente utilizzati, e con poche variabili a livello di rotazione e possibili aggiustamenti.

Il roster di Miami, infatti, ha visto come possibili centri i soli Bosh ed Andersen, con l’aggiunta di inizio anno di Greg Oden che a questo punto della stagione è sembrata quasi senza senso. L’ex Blazers non è mai riuscito a trovare la giusta forma fisiva per essere parte integrante della squadra.

Anche il perseverare con giocatori come Beasley e Jones, utilizzati poco o niente da Spoelstra, ha occupato soldi e spazio nel roster per giocatori dalle maggiori possibilità e potenzialità. Pensare di continuare proprio con Oden e Beasley, e lasciar andare via quel Mike Miller che si rivelò fondamentale nel dare il colpo decisivo alla giugulare di San Antonio potrebbe dare un’abbastanza chiara idea degli errori commessi sul mercato da Miami.

Con il ritiro di Battier, ed un possibile addio di Ray Allen per gli stessi motivi, Pat Riley ha per le mani una situazione abbastanza calda e difficile da gestire. Lo stesso presidente dell’organizzazione ha parlato in questi giorni, ribadendo la necessità della propria squadra che i suoi gioielli più preziosi restino dove sono, soprattutto ripensando alla brutta sconfitta subita per mano degli speroni nero-argento e cercare successivamente vendetta, proprio come fatto da questi ultimi.

Sottolineando che alcune tra le più grandi dinastie (i Lakers di Magic Johnson, i Celtics di Bird, e gli stessi Spurs di Duncan) hanno dovuto perdere degli anelli prima di poterne vincere un quantitativo considerevole, Riley ha anche aggiunto che ha vagliato un certo numero di opzioni nel caso in cui i Big Three decidano in un modo piuttosto che in un altro. Il mercato si sta già avviando, e Riley cercherà di effettuare le giuste mosse per far restare le sue stelle, e cercare possibilmente di aggiungerne altre.

Riley ha infine ribadito che cercherà in ogni modo possibile di allungare la permanenza di LeBron e compagnia sottolineando che il front office è pronto a farlo, e che “non è più intenzionato a camminare sui gusci d’uovo”.

Un momento chiave, questo, per il futuro prossimo e non solo dei Miami Heat. Una serie di importanti decisioni devono essere prese, e probabilmente sposteranno importanti e fondamentali equilibri all’interno della National Basketball Association.

 

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