Per quanto il gioco che tanto amiamo non sia cambiato come “scopo” dalla sua invenzione nel 1891 ad oggi (bisogna sempre far canestro di qua e non farlo fare di là, per intenderci), le regole e l’evoluzione atletica dei partecipanti hanno portato a variazioni determinanti, ad esempio nel ruolo di “4” o ala grande che dir si voglia.
Per chi ha avuto la fortuna di vedere filmati d’epoca non è una novità il sottolineare come si giocasse in un apparente caos, con movimenti continui di tutti i 5 giocatori in campo, fino ad arrivare possibilmente a un tiro da vicino. Successivamente notiamo come la maggior precisione dei giocatori, grazie anche all’introduzione del tiro a una mano, abbia “ampliato” il raggio di tiro, trasformando le partite in una gara di piazzati dai 4-5 metri.
Le prime variazioni delle regole, poi, hanno cominciato a influenzare in modo decisivo l’evoluzione del gioco. L’allargamento dell’area dei tre secondi che da “lampadina” diventa un rettangolo (rombo nel panorama FIBA), il divieto nei college di schiacciare durante l’era Alcindor, poi conosciuto come Kareem Abdul-Jabbar. Da lì in poi poco è cambiato, finchè non è stata inventata la linea del tiro da tre punti, croce e delizia del “basket moderno”.
In questo articolo, nello specifico, vogliamo trattare l’argomento del ruolo di ala forte, come anticipato in apertura, soprattutto nell’evoluzione che l’ha visto protagonista negli ultimi 20 anni, o giù di lì.
Tra i 70’s e gli anni 80, diciamocelo, poco è cambiato. Io stesso ho iniziato a giocare nei primi anni 80 e ricordo ancora come la distinzione che veniva fatta era essenzialmente basata sull’altezza dei bambini/ragazzi. Chi giocava “dietro” e chi sotto canestro. Fondamentalmente avevamo una situazione con un playmaker – quello più bravo a trattare la palla, e magari veloce abbastanza da superare la metà campo in palleggio senza farsela rubare – due cosiddetti “esterni” e due “lunghi”. La distinzione anche tra questi ultimi era minima, se non inesistente: uno occupava un post basso, uno l’altro.
Nel “basket dei grandi” vedevamo poche varianti. La miglior ala grande – probabilmente – mai apparsa sui campi italiani, che all’anagrafe fa tutt’oggi Robert Allen McAdoo, per gli amici Bob, tre volte capocannoniere NBA, 1 volta MVP della Lega, vincitore poi di tutto quello che era possibile portare a casa a livello italiano ed europeo con la maglia dell’Olimpia Milano di coach Peterson, formava con Dino Meneghin la coppia di lunghi da prendere ad esempio.
Grazie alle qualità di passatore del “monumento nazionale”, secondo probabilmente solo a Sabonis in quel tipo di gioco, Bob poteva evoluire anche da pivot, con Meneghin a dispensare assist dal post alto, pur non avendo un tiro da quella distanza, cosa che invece McAdoo possedeva e metteva in bella mostra di fronte a tutti gli avversari. Questo il primo punto fondamentale, nel cominciare a capire l’evoluzione che in quel decennio ebbe il ruolo: il 4 poteva giocare anche fronte a canestro, e se la metteva con continuità dai 5 metri…meglio!
Dall’altra parte dell’oceano, location che abitualmente interessa ai lettori di questo sito, un certo Karl Malone cominciava a farsi strada, per prendere l’eredità della miglior ala grande della decade: Kevin “Black Hole” McHale.
McHale formava il trio di front-line più impressionante della NBA, con Larry Bird da 3 e Robert Parish da 5. Bird sarebbe stato, al giorno d’oggi, quello che è attualmente LeBron James, con le dovute distinzioni di fisico e velocità. Ma la velocità che Bird aveva non era di piedi, ma di mani e soprattutto cervello. Anticipando mentalmente quello che sarebbe successo sul parquet, “The Legend” fu la prima point-forward, definendo con il suo gioco altruista le caratteristiche del ruolo come poi è stato inteso e interpretato successivamente, ad esempio da Scottie Pippen. Ma questa è un’altra storia…
Kevin McHale, dicevamo, al pari della coppia dell’Olimpia, era perfettamente complementare con Parish. “The Chief” amava allargarsi nel mezzo-angolo per il suo classico tiro frontale, con palla che partiva molto alta sopra la testa e una parabola spesso irraggiungibile per gli stoppatori avversari, Jabbar compreso.
L’attuale coach dei Rockets dunque poteva evoluire sulle tacche, con le spalle rivolte a canestro, e una miriade di movimenti che contemplavano in primis un uso regale del piede perno. Non più quindi una distinzione rigida tra esterni e lunghi (discorso Bird), non più una altrettanto limitante tra 4 e 5, ma un utilizzo di giocatori interscambiabili, secondo le proprie caratteristiche.
Il “Postino” raccolse questa eredità e in coppia con John Stockton diede vita al famoso pick’n’roll, conosciuto anche con la frase “Stockton-to-Malone”, tanto micidiale da trascinare una squadra non certo di primissima fascia come i Jazz a due sfortunate apparizioni alle Finals, concluse come tutti sanno con il 5° e 6° anello di M.J. e soci.
Malone si costruì un tiro frontale, micidiale, dalla media distanza e soprattutto imparò a segnare i tiri liberi, procurandosene a valanga. La condizione fisica – poi – che seppe mantenere per tutta la carriera gli permetteva anche di arrivare molto spesso prima del diretto avversario nell’altra area, così da raccogliere molti punti facili in contropiede. Ma stiamo sempre parlando di un lungo, anche per caratteristiche fisiche ed atletiche, che nulla aveva da invidiare ai “colossi” che l’hanno preceduto sui campi di gioco.
A metà anni 90 un’ulteriore variabile ha nuovamente “aggiornato” quelle che dovevano essere le caratteristiche del 4 per eccellenza. Soprannominato non per nulla “The Revolution”, è stato l’ingresso di Kevin Garnett nella Lega a dettare la nuova tendenza che tutti gli scout iniziarono a seguire.
Il gioco del Bigliettone si è ispirato in parte a quello di Dennis Rodman, un’ala grande molto più mobile degli “antenati” del ruolo, con capacità difensive proprie di guardie e ali piccole, e una volontà sconfinata nell’arrivare sempre per primo quando si trattava di catturare un rimbalzo, anche se non soprattutto sotto i tabelloni avversari, dove la struttura più longilinea gli permetteva di liberarsi del tagliafuori e diventare per questo imprendibile.
KG a tutto questo ha aggiunto la tecnica che ancora oggi lo accompagna, e un tiro che progressivamente è partito da sempre più lontano, sfiorando la linea dei tre punti. In difesa, grazie a centimetri e una voglia di competere probabilmente mai più replicabile, “The Big Ticket” ha saputo tenere qualsiasi tipo di ala grande e di centro, non soffrendo quasi mai i chili che eventualmente gli avversari, più di lui, portavano in dote.
Ecco ricomparire nella nostra storia la linea dei tre punti. Detto che da quando sono stati introdotti i 24 secondi, questa è la regola che ha maggiormente rivoluzionato il gioco, dalla sua invenzione ad oggi, le conseguenze non sono state, almeno per il sottoscritto, sempre e per forza positive. Siamo partiti narrando delle gesta, americane e italiane, di Bob McAdoo, che del così detto “In-between game” era maestro assoluto. Tutto quello che accade, o meglio accadeva, tra i 3 e i 6 metri dal canestro, oggi non c’è più.
Un fondamentale insegnato – giustamente – con insistenza fino a 15 anni fa come l’arresto-e-tiro, è quasi scomparso ormai dai programmi degli allenatori di settore giovanile, così come dai coach dei licei americani, sostituito da dosi massicce di pick’n’roll, in tutte le posizioni e combinazioni di partecipanti.
Anche a causa di questo, al giorno d’oggi, i maggiori interpreti del ruolo sono sostanzialmente delle ali piccole, o in questo spot sarebbero stati impiegati fino a qualche anno fa. Magari non fin dalla palla a due, ma certamente nei momenti cruciali delle partite, i vari LeBron James e Carmelo Anthony, per citare due nomi (non) a caso, giocano minuti importanti proprio da “4”.
In Europa il concetto è stato ormai portato agli estremi, con giocatori come Fotsis ad esempio che stazionano costantemente dietro l’arco dei tre punti, da dove possono (non sempre nel caso del greco nelle stagioni milanesi, utile rimarcarlo…) diventare micidiali come se non più di una guardia tiratrice.
Di contro un giocatore con queste caratteristiche difficilmente riesce ormai a rendersi utile con movimenti alternativi e un arsenale offensivo che va via via impoverendosi. Il basket nel vecchio continente si gioca ormai così, con quattro veri esterni, quella che solo pochi anni fa nella NBA era definita “small ball” della quale Don Nelson fu un precursore, ed oggi la “novità” è diventata una costante.
In America l’unico freno alla trasformazione completa è stata la presenza di lunghi vecchio stampo come Shaq prima e Dwight Howard oggi. La loro presenza determina sì un allargamento del campo per favorire poi la palla dentro al centro, ma proprio per la caratura dei giocatori citati, e la loro voglia di avere sempre la palla in mano, quello che praticamente diventerebbe un “5 fuori” stile minibasket non è praticabile.
Ci ha provato Van Gundy II a Orlando, con finte ali (Lewis, Turkoglu) che in realtà giocavano con lo stesso stile di una guardia, ad aprire costantemente il campo dando tutto lo spazio del mondo in area a Superman. Non ha funzionato.
Ma altrettanto non ha funzionato l’accoppiare ad Howard un altro lungo, pur di classe purissima e dai fondamentali poetici come Pau Gasol, e le vicende degli ultimi Lakers sono qui a ricordarcelo.
Quando funziona allora questa nuova soluzione del 3 prestato al ruolo di 4?
Quando la coppia in front-line viene creata con criterio, ed è il caso di Miami dove a fianco di LBJ evoluisce un lungo in stile Andersen o anche il Bosh dell’ultimo triennio, non avidi di palloni, altrettanto mobili e capaci di giocare in zone del campo che una volta non si sarebbero mai associate a un pivot vero e proprio.
Funziona quando Stoudemire a New York sta seduto a guardare e ‘Melo può giocare con a fianco un giocatore fisico come Chandler, a lui assolutamente complementare, e che ne copre le spalle in difesa. Questa ormai la tendenza ufficiale e conclamata, inseguita da tutti i GM e i coach dell’NBA.
Anche i vice-campioni degli Spurs hanno messo ormai con costanza Duncan nella posizione di 5 (ricordiamo che entrando nella NBA il suo ruolo era quello di 4, se mai ne è esistito uno che ne racchiudesse in se tutte le caratteristiche, giocando da spalla di David Robinson) con Diaw o Bonner – in puro stile europeo – dietro la linea da tre.
L’evoluzione appare dunque irreversibile. Pochissime squadre cercano di avere a roster due lunghi veri e propri che possano giocare insieme (Memphis… e poi?), gli ultimi esperimenti sono miseramente falliti, e i risultati determinano la moda del momento, insieme all’evoluzione degli atleti, sempre più in grado di coprire ruoli diversi e non per forza relegati a quello che il fisico, una volta, permetteva o non permetteva di fare.
Griffin, per citare altri esempi, sta aumentando progressivamente la distanza del suo tiro. Nowitzki rimane un altro grosso esempio di giocatore con caratteristiche fisiche da lungo, ma abilità balistiche da guardia, almeno nel tiro. Nemmeno il pensiero saltuario di girare le spalle a canestro e un’abilità fatta di equilibrio inspiegabile e mani da fata per segnare anche i tiri più improbabili da qualunque posizione del campo.
Questo è quello che nel 2013 è diventato il vecchio, affascinante, ruolo di ala grande.
In fondo gli americani hanno sempre distinto le “categorie” tra guardie, ali e centro. In questo senso – se pensiamo che sistemi offensivi nati decenni e decenni fa come la Triple-Post Offense o la Princeton Offense prevedevano già questo tipo di schieramento – la storia fa uno dei suoi soliti giri per tornare indietro, con una veste più moderna, e chiudere il cerchio.
Ex-giocatore e poi allenatore a livello di settore giovanile in Toscana e Umbria. Scrive di basket americano dal 2005. Autore del libro “Il triangolo… sì, io lo rifarei” unico testo in italiano (con prefazione di Raffaele Imbrogno) dedicato alla Triple-post Offense di Coach Tex Winter.
@a_p_official
Bell’articolo…. Comunque quando si parla Dell’evoluzione del ruolo di 4 citare il tedesco che gioca a Dallas è d obbligo!
Citato è citato, intendo nell’articolo. Molto bello anche per me. Nowitzki mi sembra un caso abbastanza a parte, quindi non un punto di riferimento nell’evoluzione del ruolo
Si esatto: Dirk è citato, ma è un caso isolato, non ha preso piede il trend dei lunghi tiratori… ce ne sono occasionalmente, ma sono pochi e raramente sono stati efficaci come il tedesco. Invece il pezzo vuole sottolineare la tendenza di fondo dell’evoluzione del ruolo: si è passati dal 4 come “secondo lungo” intercambiale col centro, al 4 che poteva tirare anche da 4-5 metri, al 4 mobile alla Rodman, alla Garnett, alla Bosh, per arrivare al 4 “finto”, alla Anthony, alla James (ma non solo, pensiamo ai Warriors che nei playoffs hanno giocato lunghi minuti con Barnes da 4, e il prossimo anno giocheranno spesso con Iguodala da 4)… in pratica un’ala piccola che va bene a rimbalzo e “uccide” i lunghi avversari in attacco…
bell’articolo, ma sull’evoluzione irreversibile non sarei così drammatico. oltre alla citata memphis ci sono diverse squadre, anche di vertice, che vanno coi due lunghi classici: indiana (hibbert/west e ora anche scola), san antonio (splitter è sempre stato il titolare anche se gli spurs sono eccellenti nell’adattarsi all’avversario), chicago (noah+boozer/gibson), brooklyn (lopez+garnett, anche se è facile immaginare momenti di kirilenko da 4), golden state (che era pensata con una coppia di lunghi canonici come bogut e lee, prima che gli infortuni prendessero il sopravvento – e forse è stato un bene), detroit (che dovrebbe andare con drummond+monroe) sono le prime che mi vengono in mente.
quello che intendo è che è innegabile ci sia questa tendenza nel ruolo, ma non credo diventerà la norma: c’è e ci sarà ancora tanto spazio per i 4 old style (nei limiti, è chiaro che il gioco evolve) e di lebron ce n’è solo uno, sbagliato prenderlo come metro di paragone.
Sono d’accordo, però vedrai che dalla moda lanciata da Lebron e anche Anthony verrá fuori un trend importante. Indiana é l’unica che ha imposto il doppio lungo agli Heat, neanche gli Spurs ci sono riusciti. Merito di West e dell’impianto difensivo di Vogel, ma anche del fatto che West è un 3/4, non un 4/5 come Splitter. Chicago non ha di sicuro beneficiato di alcun vantaggio tenendo in campo Boozer, mentre a Detroit molti dicono che Josh Smith farà il 4 con Drummond dalla panca… Vedremo…
Esattamente, e poi molte delle squadre citate sono come composizione della frontline in divenire: la coppia dei Nets è cosa di quest’estate, ad esempio. Mi sembra che l’articolo riporti in fondo quelli che sono stati i giocatori e le squadre che con precise scelte dettate dalle caratteristiche dei players a disposizione hanno definito un trend poi seguito (con successo o meno) dagli altri, per anni, fino ad una nuova variante. Non è detto che scompaia il “4” old style, anzi…e sarebbe proprio bello che non tutte le squadre giocassero nello stesso modo, come invece in alcuni periodi storici avviene.